domenica 19 agosto 2012
Da
novembre vado scrivendo in questo blog, minuscolo frammento della
relativa galassia, che Mario Monti sarà pure esperto di maneggi
finanziari, ma che di economia non capisce un cazzo. Lo so, detto così
non è scientifico, tuttavia sono sempre di più quelli che se ne fanno
convinti senza tante perifrasi "scientifiche". Per lo stesso motivo non
dovrebbe quindi stupire più di tanto che un premio Nobel per l’economia
sia un perfetto analfabeta proprio nella sua materia. È il caso di
Joseph E. Stiglitz, Nobel del 2001, del quale, devo ammettere, ho letto
un solo libro: La globalizzazione e i suoi oppositori. Ma anche
se non avessi letto nulla della sua produzione “scientifica”, basterebbe
leggere un suo articolo pubblicato oggi dal blog di Grillo (il quale lo
presenta familiarmente come Joe Stiglitz).
La
diminuzione del tasso di profitto del settore reale nei Paesi avanzati
ha generato un'espansione del settore finanziario che ha garantito la
tenuta del sistema fino allo scoppio della bolla immobiliare nel 2007.
Per “settore reale” s’intende quello della produzione, per diminuzione del
tasso di profitto si legga: caduta tendenziale del saggio medio del
profitto. Per bolla immobiliare si deve grossomodo intendere i capitali
che dalla produzione si sono impegnati nella speculazione immobiliare
proprio per far fronte alla caduta di valorizzazione in altri settori
d’investimento. Scrive il Nobel:
Il rallentamento dell’economia reale nei Paesi avanzati ha implicato una fuoriuscita di risorse da questo settore non più remunerativo, incentivando la delocalizzazione produttiva e l’investimento finanziario in attività sempre più rischiose e complesse.
Stessa
minestra: il capitale per far fronte alla caduta dei profitti emigra
dove trova migliori condizioni di valorizzazione. È il primo lato della
globalizzazione; l’altro è la stagnazione o il declino produttivo dei Paesi occidentali. Poi:
L’iniezione
di liquidità effettuata a più riprese dalle banche centrali americana
ed europea non ha sortito rilevanti effetti positivi sull’economia reale
dei Paesi occidentali, mentre le banche hanno ripreso a speculare grazie alla maggiore liquidità a disposizione, accrescendo i propri profitti. Il salvataggio delle banche, con la conseguente socializzazione di perdite private, è importante per la salvaguardia del risparmio del ceto medio.
E fin qui siamo all’evidenza quotidiana. Sennonché:
il
salvataggio bancario non è in grado di risolvere da solo l’attuale
crisi. Infatti, non influisce sul problema di fondo, cioè una divergenza tra una produttività crescente e una capacità di acquisto stagnante o calante. In aggiunta, il salvataggio delle banche da parte degli Stati ha fatto lievitare il debito pubblico, già elevato in alcuni Paesi come l’Italia.
Qui
bisognava essere un pelo più precisi: la produttività crescente non
riguarda i paesi occidentali ma bensì la fabbrica mondo, come per
esempio la Cina, mentre l’acquisto stagnante o calante è una conseguenza
della recessione produttiva in atto in occidente. Va detto anche che il
salvataggio delle banche, almeno fino all’altro giorno, non ha
riguardato in maniera decisiva le banche italiane. A ogni buon conto,
non si tratta di questo, il punto decisivo dell’articolo riguarda la
soluzione proposta:
L’attuale modello di sviluppo, basato sull'utopica credenza di una crescita senza fine,
che non distingue beni da merci, genera insostenibili disuguaglianze e
provoca sempre più forti criticità ambientali. Bisognerebbe puntare all’innovazione, alla cultura ed ai servizi,
beni prevalentemente immateriali, ma che spesso hanno un forte legame
con i territori. Ciò che proponiamo come un abbozzo per un nuovo modo di
vivere si può riassumere nella frase: "Lavorino le macchine, noi godiamoci la vita".
E siamo giunti alle prime coglionaggini, peraltro assai grossolane. Partiamo dall'utopica
credenza di una crescita senza fine. Si può essere anche d’accordo, ma
bisogna anche precisare che essa costituisce il fine precipuo
dell’attuale modo di produzione capitalistico. Non piace? Bisogna
uscirne, non si può restare con due piedi nella stessa scarpa. Per
uscire dell’attuale modo di produzione capitalistico non basta
produrre “beni” invece di “merci”, bisogna uscire dai rapporti di
produzione capitalistici e cioè anzitutto dai rapporti di proprietà,
perché da essi dipende la forma di tutti gli altri. Se non ha compreso questo, caro Stiglitz, Lei è un ASINO.
Oltretutto
è necessario non solo uscire dalla mera determinazione giuridica dei
rapporti di proprietà (che è solo la forma esterna dei rapporti di
produzione) ma dal movimento reale dei rapporti di proprietà nel
processo produttivo. E non sarà certo producendo “beni immateriali” che
si scamperà da tale inghippo, anche perché ce né subito un altro e si
chiama divisione sociale del lavoro, la quale, per dirla con le parole
di uno scrittore e politico scozzese, David Urquhart, “the subdivision of labour is the assassination of a people”.
E
poi, signor premio Nobel, che cosa distingue un “bene” da una volgare
“merce”? L’immaterialità? Non ho mai visto in vita mia un “bene”
immateriale, nemmeno l’amore. Laddove un “bene”, ossia un valore d’uso
entra in relazione con i rapporti sociali di produzione, influisce su di
essi e ne subisce l’influenza, diventa cioè una categoria economica.
Anche un ASINO come Lei dovrebbe quindi capire che quello che le merci e
i “beni” hanno in comune non è il valore d’uso, cioè la materialità o
la presunta immaterialità, bensì il lavoro umano astratto, il lavoro
umano in generale, vale a dire il loro valore di scambio, la cui
grandezza è determinata dalla quantità di lavoro socialmente necessario
per la produzione di un determinato valore d’uso (o “bene”), qualunque esso sia.
L’astratta
legge del valore governa dunque la realtà indipendentemente dalle
illusioni degli economisti borghesi che non vogliono farsi ragione che
la produzione capitalistica è produzione di valori di scambio per mezzo
di valori d’uso (“beni”). Essi non vogliono abolire la produzione stessa
di plusvalore, ma operare una “transizione tra un’economia delle merci ed un’economia dei servizi, inventando nuovi lavori, magari a ritmi più umani, dematerializzando le nostre produzioni”.
Fonte: Diciotto Brumaio
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lunedì 20 agosto 2012
Orecchiette con cime di rapa
Riprendo
il punto dal post precedente (lo so che forse interessa pochi, ma
pazienza). L’economista Joseph Stiglitz sa bene che le carte del
capitalismo sono truccate, egli è una di quelle anime belle che vorrebbe
un capitalismo virtuoso ed etico.
Nel suo libro, La globalizzazione e i suoi oppositori, egli afferma che: “Il
cambiamento più sostanziale, necessario per far funzionare la
globalizzazione nel modo dovuto, è un cambiamento del governo di queste
istituzioni” (Einaudi, p. 230). Per esempio alla Banca Mondiale
basterebbe una modifica del sistema di voto. Altro punto sostanziale
riguarda “il problema della mancanza di trasparenza di ognuna di queste istituzioni internazionali”
(p. 332). Insomma, migliorare taluni aspetti della regolamentazione del
sistema, quale quello, come detto, delle istituzioni internazionali, ma
anche del sistema bancario e perciò della gestione del rischio (p.
243).
Ci si potrebbe chiedere dove viva Stiglitz, e soprattutto dove abbia vissuto nel passato e cosa abbia fatto. È
stato consigliere economico del presidente William J. Clinton proprio
nel periodo (1997-2000) in cui la presidenza fece approvare la legge Gramm-Leach-Bliley di Modernizzazione dei servizi finanziari
il 12 novembre 1999 che di fatto ha contribuito all'abrogazione della
legge Glass-Steagall del 1933, approvata in risposta al clima di
corruzione, manipolazione finanziaria e insider trading che aveva provocato più di 5.000 fallimenti bancari negli anni successivi al crollo di Wall Street del 1929.
Con
questo non voglio dire che alcuni dettagli della critica di Stiglitz
alle politiche liberiste non contenga osservazioni pertinenti e ben
argomentate, ma è la base di partenza della sua critica che è sbagliata.
Sta di fatto che l’unica cosa che egli non mette in dubbio è la
validità, in sé, del sistema capitalistico. Naturalmente vorrebbe
riformarne alcune distorsioni, soprattutto dal lato finanziario e ora
anche dal lato del modello sociale e della distribuzione.
Su
un punto essenziale, a mio avviso, tali riformatori sbagliano, e cioè
nel non tener conto della reale natura del modo di produzione
capitalistico. E questo lo si capisce bene quando Stiglitz distingue
categorie economiche quali “merce” e “beni”, questi ultimi intesi come
valori d’uso e dei quali non si capisce bene con quali criteri
dovrebbero essere scambiati o distribuiti all’interno del sistema di
produzione capitalistico. Soprattutto non va dimenticato che la
formazione del capitale non può avvenire che sulla base della
circolazione delle merci e la produzione capitalistica fa della merce la forma generale di ogni prodotto.
L’economia
borghese, ossia la metafisica dei rapporti di produzione borghesi,
intende il capitale, sia esso merce o denaro, come fatto di “cose”,
senza tener conto che esso è anzitutto un rapporto, un rapporto sociale,
e che da un processo produttivo, qualunque idea ci si sia fatta di
esso, non può mai uscire nulla che non vi sia entrato sotto forma di
condizioni della produzione.
Oltretutto,
va tenuto conto, come osservava Marx, che il prodotto del processo di
produzione capitalistico non è né semplice prodotto (“bene”, valore
d’uso) né semplice merce, cioè prodotto dotato di un valore di scambio;
il suo prodotto specifico è il plusvalore. In tale contesto, il
lavoro salariato è il presupposto necessario della produzione
capitalistica e le condizioni oggettive del suo impiego assumono una
forma specifica, di sottomissione alle condizioni materiali del lavoro e di costrizione al plus-lavoro. Pertanto affermare, come fa Stiglitz, “lasciamo lavorare le macchine e godiamoci la vita”, è pura fantasia (eufemismo).
Fonte: Diciotto Brumaio