martedì 28 agosto 2012

Qualcosa si muove a sinistra...

[Pare incredibile. 

Bersani è riuscito in un'impresa che sembrava impossibile per il PD, destinato come appariva a diventare una nuova DC. 

Ma è incredibile!!! Ottimo e incredibile!
Bravo il resuscitato!
Forse si è finalmente reso conto che la corsa all'essere più moderato è perdente in partenza. (vedi quanto scritto da Marco  Bracconi)
Cosa manca a questo punto?

Una grande alleanza di forze a sinistra che faccia finalmente chiarezza chi sta dalla parte dei privilegiati e chi da quella della gente comune, includendo forze come l'ALBA e l'FDS (che in preda alla confusione, cerca il classico Harakiri con un'alleanza con il partito di destra di Di Pietro) più l'abbandono del governo di destra di Monti.

Un alleanza che ovviamente può essere  solo un inizio, un mezzo e non un fine, l'inizio di una cammino in una direzione che ultimamente sembra sia stata totalmente abbandonata: la tutela dei bisogni e delle istanze della gente comune e la realizzazione di una società unita e solidale.

Le proposte non mancano. Leggete di seguito.]

Altro che Cosa Bianca: facciamo la Cosa Seria


Altro che Cosa Bianca.
Facciamo la Cosa Seria.

Un movimento aperto a quel 99 per cento di cittadini che non vive di rendite e di finanza: che siano giovani o anziani, deboli o forti – perché anche i forti possono prendere con onore la responsabilità di essere garanzia degli altri.

Un movimento laico di quella laicità che è la più intelligente garanzia della solidarietà senza esegesi politica.

Nella Cosa Seria le porte sono aperte a tutti coloro che si riconoscono nelle priorità di programma che sono poche e chiare. Nella Cosa Seria ci si impegna ad essere includenti nel senso più pieno: quello che combatte le oligarchie, le iniquità, le rendite di posizione e le corporazioni.


Nella Cosa Seria la memoria è un punto di programma: la memoria della Storia di questo Paese (la migliore come stimolo e la peggiore come vaccino) e la memoria delle scelte politiche delle persone che vogliono starci. I liberisti smodati sono liberisti smodati, perché ne abbiamo memoria. I sostenitori prostituiti ai berlusconismi in tutte le sue salse sono incompatibili con noi, perché ne abbiamo memoria. I fiancheggiatori politici di persone condannate per mafia sono avversari politici senza mediazioni, perché ne abbiamo memoria.

Chi ha votato in Parlamento la sistematica distruzione della scuola, della magistratura, dei diritti dei lavoratori, delle emergenze per sfamare gli appalti, del suolo trasformato in appetitoso margine di monetizzazione, delle infrastrutture utili dimenticate, della sicurezza idrogeologica in nome del profitto, della sanità pubblica e di tutto ciò che è stato confiscato ai diritti, nella Cosa Seria non ha posto perché la memoria è il primo ingrediente della democrazia e i ravveduti dell’ultimo minuto sono alchimisti che ormai sappiamo riconoscere.
Nella Cosa Seria anche la verità è un punto di programma: la verità giudiziaria, la verità storica e la verità politica. Non si parteggia per questo o quel potere: si pretende l’emersione totale dei fatti e si difende chi lavora per questo. Senza calcoli elettorali e posizionamenti da patetico risiko politico.

Nella Cosa Seria si dialoga con il cuore dei partiti: i militanti, gli amministratori, le tante persone serie e per bene che fanno politica con impegno e passione in giro per l’Italia. Perché il sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, era un politico, Pio La Torre era un politico, Peppino Impastato era un attivista politico: la politica in Italia per molti è stata ed è una Cosa terribilmente e meravigliosamente Seria.

Nella Cosa Seria l’equità non è un spot europeista di macroeconomia ma passa attraverso un ridistribuzione dei diritti e dei doveri, dei costi e dei benefici e soprattutto delle opportunità. Opportunità garantite a tutti: la meritocrazia passa per forza da qui.

Nella Cosa Seria vincere le elezioni è un mezzo e non un fine. E anche governare dopo averle vinte è un mezzo e non un fine.

Nella Cosa Seria i diritti civili non sono più negoziabili con nessuno, né rinviabili, né assoggettabili a compromessi al ribasso o a diktat provenienti da chi fa della propria fede un elemento di divisione e non di fratellanza. E per questo, anche per questo, non sono alternativi ma al contrario strettamente connessi con i diritti sociali.

Nella Cosa Seria si pensa che i cinque miliardi di euro spesi finora per bombardare l’Afghanistan siano stati rubati al welfare, agli ospedali, agli asili nido, alla scuola pubblica. E che le spese in aerei da guerra o in supercannoni tecnologici siano solo un furto ignobile ai danni dei pensionati come dei precari.

Nella Cosa Seria si sta insieme, perché un’alleanza politica non è un matrimonio e quindi non divorzi se il tuo alleato urla troppo quando parla o è maleducato. Nella cosa seria conta la politica vera, il programma da realizzare, non le simpatie.

Nella Cosa Seria quando dici «ce lo chiede l’Europa» pensi alla legge anticorruzione mai fatta, al salario minimo garantito in Francia, al congedo parentale obbligatorio per i papà della Svezia, al reddito minimo di cittadinanza garantito da tutti gli stati europei tranne che da noi, in Spagna, Portogallo e in Grecia. Pensi a un modello di previdenza sociale che tuteli anche i lavoratori precari e le donne che devono lasciare il posto di lavoro in gravidanza, pensi a una legge sulla procreazione assistita che non ti costringa ad andare all’estero per fare un figlio, pensi al pluralismo dell’informazione e alla diffusione della rete.

Nella Cosa Seria siamo europeisti convinti, per questo pensiamo che l’Europa unita non sia quella delle banche ma quella dei cittadini, e che i mercati finanziari debbano essere controllati e le speculazioni scoraggiate con misure come la Tobin Tax per privilegiare gli investimenti sul lavoro e l’impresa.

Nella Cosa Seria ci si batte per un’Europa matura e solidale con un indirizzo comune, un esercito comune, liste comuni al parlamento europeo e una banca centrale in grado di mettere al riparo i singoli stati dall’attacco della speculazione finanziaria.

Nella Cosa Seria pensiamo che ciascuno sia cittadino del Paese in cui nasce, che l’immigrazione sia una risorsa e non una minaccia.

Nella Cosa Seria vogliamo che il carcere serva a rieducare e non a umiliare e che la detenzione sia l’ultima opzione dopo il ricorso a pene alternative.

Nella Cosa Seria siamo convinti che la lotta all’evasione si combatta abbassando la soglia del pagamento in contanti e tracciando i pagamenti. E che sia ingiusto aumentare il prelievo fiscale ricorrendo all’aumento dell’Iva e non alla patrimoniale.

Nella Cosa Seria immaginiamo città liberate dal traffico e dall’inquinamento grazie alle piste ciclabili, al car sharing, con un trasporto pubblico più efficiente e meno macchine.

Nella Cosa Seria crediamo che l’Italia meriti una politica industriale che punta a un modello di sviluppo sostenibile; nella Cosa Seria pensiamo che si cresca riconvertendo e non cementificando, puntando sulle energie alternative e non sulle grandi opere.

Nella Cosa Seria si fanno le primarie, si scelgono i parlamentari, non si decide mai soli, né in due o in tre.
Nella Cosa Seria sappiamo che la parola “sinistra” nel Paese ha ancora un senso diffuso che non appartiene a ceti politici né a gruppi dirigenti. È un sentimento, un modo di stare al mondo, un’appartenenza ideale e concreta che richiede coerenza e che non può ridursi in piccoli e particolari interessi di bottega, antiche inimicizie e gelosie d’appartenenza.

Per questo chiediamo che Sinistra Ecologia e Libertà e una parte consistente del Partito Democratico siano il motore di una coalizione che sia una Cosa Seria. Che guardi a Italia dei Valori, Federazione della Sinistra, ALBA, Verdi e tutti coloro che si riconoscono in un manifesto di posizioni chiare e realmente governabili, oltre che di governo. Perché non ci piace la strategia dell’inerzia per capitalizzare il consenso trascinandosi alle prossime elezioni, ma preferiamo la semplicità e la chiarezza delle idee da valorizzare insieme. Soluzioni collettive per risolvere i problemi, insieme: politica presa come una Cosa Seria.

[Peccato per lo scivolone finale.

L'IDV non può e non deve fare parte di una Cosa Seria: l'IDV è un partito reazionario, conservatore, giustizialista, di destra, che ha distrutto e traviato il pensiero di milioni d'Italiani.

Non deve essere consentito a Di Pietro di continuare a fare danni, portando ulteriori divisioni e confusione a sinistra, continuando in questo ad essere funzionale al disegno egemonico del grande capitale contro lo stato e i popoli.]

Questo documento è stato scritto a molte mani (da Giulio Cavalli, Francesca Fornario, Alessandro Gilioli, Matteo Pucciarelli, Luca Sappino e Pasquale Videtta) ma non ci interessano i padri o i primi firmatari; ci interessa farsene carico e condividerlo. Sul serio.

Fonte: Pasquale Videtta


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Ecco Un Programma politico di sinistra

arancione
di Mauro Miccolis

In questi giorni, fioriscono proposte di coalizioni, che consistono però in un elenco di nomi e non nella presentazione di un programma politico. Partendo dal programma elettorale  di Syriza, nelle recenti elezione greche, mi sono divertito ad adattarlo alla nostra situazione socio economica.

Sfido i vecchi politici così ansiosi di riproporre se stessi alla guida del paese, a scrivere un programma migliore di questo:

1. Realizzare un audit del debito pubblico. Annullamento della parte illegittima del debito, cioè quello realizzato per sostenere i profitti, per garantire la speculazione delle grandi banche e per sorreggere un’economia capitalistica in crisi di sbocchi, e quindi di margini di profitto, e bisognosa di una bolla finanziaria in grado di garantire l’attività. Sospensione di ogni pagamento sino a quando il PIL = 10%

2. Uscita dall’euro e ripristino della sovranità Monetaria; Lo stato ritorna ad emettere Banconote di Stato e ad avere una sua Banca, attraverso la Nazionalizzazione di quelle banche che più hanno ricevuto aiuti dallo Stato,oppure con la fondazione di una nuova banca.

3. Con la riappropriazione della quarta funzione dello stato (stampare Moneta), lo stato deve intraprendere una politica di piena occupazione, si devono dar vita a massicci programmi di investimento pubblico, nell’istruzione,nella sanità e nella difesa; ma anche nell’industria attraverso la Nazionalizzazione delle imprese ex-pubbliche in settori strategici per la crescita del paese (ferrovie, aeroporti, poste, Telecomunicazioni …) espropriando in modo coatto grandi aziende  come Fiat e ILVA, TELECOM che sono state gestite in maniera scellerata. Gli investimenti pubblici riguarderanno anche il settore energetico; l’ Italia deve diventare indipendente energeticamente attraverso lo sviluppo dello sfruttamento di tutte le fonti di energia rinnovabile : geo termico,solare, eolico, maree etc. L’industria automobilistica deve convergere nella medesima direzione cambiando la tipologia dei motori che devono essere rispettosi dell’ambiente ed alimentati da energie rinnovabili. Tutta la filiera industriale deve svilupparsi nel rispetto dell’ambiente, dal progetto allo smaltimento di un prodotto (se un prodotto non si può interamente riciclare, non sarà fabbricato e/o commercializzato, questo favorirà una politica di smaltimento rifiuti basata sulla raccolta differenziata). L’Italia deve diventare indipendente anche nel settore alimentare: si deve favorire la produzione interna del fabbisogno alimentare e disincentivare il commercio di prodotti esteri, coltivabili/allevabili anche in Italia. Discorso analogo per qualsiasi prodotto o manufatto che godrà di vantaggi di sgravi fiscali se prodotto in Italia. Chiudere gli Iper mercati, ed adottare gli empori e negozi di quartiere.

4. Cambiare la legge elettorale perché la rappresentanza parlamentare sia veramente proporzionale.

5. Dar vita ad un sistema di tassazione secondo i dettami della costituzione,  (quindi aliquote più alte per redditi più alti).Aumento delle imposte sulle società per le grandi imprese, almeno fino alla media europea.
6. Adottare una tassa sulle transazioni finanziarie e anche una tassa speciale per i beni di lusso.

7. Proibire i derivati finanziari speculativi quali Swap e Cds.Proibire le vendite dei titoli allo scoperto.

8. Abolire i privilegi fiscali di cui beneficiano la Chiesa  e le Banche private.

9. Combattere il segreto bancario e la fuga di capitali all’estero per le banche private.

10. Tagliare drasticamente la spesa militare, uscendo dalla NATO e da tutti i patti internazionali che ci obbligano ad andare in guerra.Chiudere tutte le basi straniere in Italia.L’esercito Italiano si occuperà solo della difesa del territorio Italiano.

11. Istituire un reddito di cittadinanza, che permetta a tutti di vivere dignitosamente, anche se temporaneamente senza lavoro. L’entità del reddito deve essere nella media europea. Abolizione di tutte le leggi sul precariato (ad es legge 30) e ripristino della scala mobile.

12. Utilizzare edifici del governo, delle banche e della chiesa per ospitare i senzatetto.Soprattutto le Chiese.

13. Sanità e istruzione saranno garantite dallo stato gratuitamente, lo stato non sovvenzionerà in alcun modo scuole e sanità privata.

14. Il mutuo per la prima casa sarà disponibile a tasso zero nella banca nazionale.

15. Aumentare la protezione sociale per le famiglie monoparentali, anziani, disabili e famiglie senza reddito.

16. Sgravi fiscali per i beni di prima necessità.

17. Parità salariale tra uomini e donne.

18. Estendere la protezione del lavoro e dei salari per i lavoratori a tempo parziale.

19. Aumentare le ispezioni del lavoro e i requisiti per le imprese che accedano a gare pubbliche.

20. Riformare la costituzione annullando ogni modifica fatta dal 1978 ad oggi, che ne inficia lo scopo (esempio legge di pareggio del bilancio). Abolizione di ogni intervento fatto dal governo Monti.

21. Sottoporre a referendum vincolanti i trattati e altri accordi rilevanti europei.

22. Abolizione di tutti i privilegi dei deputati. Rimuovere la speciale protezione giuridica dei parlamentari e permettere ai tribunali di perseguire i membri del governo.Creare un ramo della Magistratura che vigili solo sulla disciplina dei parlamentari, e che disincentivi l’uso delle menzogne in politica, attraverso multe ed espulsione dal parlamento a seconda della gravità della menzogna o dell’intemperanza disciplinare.

23.Proibire la presenza di poliziotti con il volto coperti o con armi da fuoco nelle manifestazioni. Cambiare i corsi per poliziotti in modo da mettere in primo piano i temi sociali come l’immigrazione, le droghe o l’inclusione sociale.

24. Garantire i diritti umani in tutti i centri di detenzione.

25. Facilitare la ricomposizione familiare dei migranti che realmente vogliono stabilirsi in Italia. Permettere che essi, inclusi gli irregolari, abbiano pieno accesso alla sanità e all’educazione.

26. Depenalizzare il consumo di droghe leggere, combattendo solo il traffico. Aumentare i fondi per i centri di disintossicazione.

27. Ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan e da qualsiasi altra parte del mondo si trovino.

28. Appoggiare la creazione di uno Stato palestinese nelle frontiere del 1967.


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Io credo

Io credo in un centrosinistra che anteponga l’individuo alla comunità, ma che sappia dire “tu” per dire “noi”. 

Io credo in un centrosinistra che riconsegni tricolore e inno di Mameli alle Istituzioni, ma che il ruolo di quelle Istituzioni lo rivendichi tutto. 

Io credo in un centrosinistra che abbia per patria un’Idea e nessuna terra, ma che senza timore riaffermi il primato dello Stato sulla carità. 

Io credo in un centrosinistra che consideri Frankenstein un trattato di sociologia, e certe fiaccolate notturne un pessimo film dell’orrore. 

Io credo in un centrosinistra che dal pensiero cattolico impari a bruciare i “boschi sacri”, e da quello progressista a reggere lo sguardo di Giordano Bruno. 

Io credo in un centrosinistra che metta alla berlina gli spacciatori di identità, e che restituisca ogni “io” alla imprescindibile verità del suo nome e cognome. 

Io credo in un centrosinistra che sappia farsi testimone di un Uomo che ha piedi per camminare, non radici per marcare il territorio; posizione eretta per sfidare l’orizzonte, non capo chino per sottostare o sottomettere. 

Una mia -personale- integrazione ad un manifesto che condivido e rilancio:
Noi crediamo che l’obiettivo del centrosinistra non debba essere quello di vincere per occupare e spartirsi posti di potere.
Noi crediamo che l’obiettivo del centrosinistra debba essere vincere per cambiare davvero l’Italia: rendendola un Paese all’avanguardia nel mondo per i diritti civili e sociali, per legalità ed equità, per qualità di welfare e ambiente, per accesso a Internet.
Noi crediamo che il rocambolesco balletto inscenato nelle ultime settimane dai leader dei partiti del centrosinistra attorno alle alleanze sia offensivo nei confronti di milioni di cittadini e di elettori.
Noi crediamo che il centrosinistra possa e debba proporre agli italiani una prospettiva ideale e concreta che non rimanga paralizzata per tutta una legislatura dal mercanteggiamento triste con chi in anni recenti e meno recenti ha rappresentato una delle componenti che ci è più lontana culturalmente, politicamente ed eticamente, e che soprattutto è stata complice di Berlusconi nel portare l’Italia in questa crisi.
Noi crediamo che non sia una questione di ‘veti’ ideologici ma al contrario di pragmatica consapevolezza che una coalizione innaturale non porterà mai ad alcun reale risultato politico, né potrà mai dare all’Italia quella frustata di civiltà e di giustizia di cui ha fortemente bisogno.
Noi crediamo che sia necessario puntare non a una coalizione da sopportare, ma a un progetto da supportare. Non a una mediazione prima ancora di incominciare, ma a una grande sfida da raccogliere. Non crediamo a scelte che provengono da lontano, ma a quelle che lontano ci possono portare.
venerdì, 3 agosto, 2012

Fonte: L'anticomunitarista

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Manifesto per un soggetto politico nuovo

per un’altra politica nelle forme e nelle passioni

(pubblicato in data 26 marzo 2012)

Non c’è più tempo

Oggi in Italia meno del 4% degli elettori si dichiarano soddisfatti dei partiti politici come si sono configurati nel loro paese. Questo profondo disincanto non è solo italiano. In tutto il mondo della democrazia rappresentativa i partiti politici sono guardati con crescente sfiducia, disprezzo, perfino rabbia. Al cuore della nostra democrazia si è aperto un buco nero, una sfera separata, abitata da professionisti in gran parte maschi, organizzata dalle élite di partito, protetta dal linguaggio tecnico e dalla prassi burocratica degli amministratori e, in vastissima misura, impermeabile alla generalità del pubblico. È crescente l’ impressione che i nostri rappresentanti rappresentino solo se stessi, i loro interessi, i loro amici e parenti. Quasi fossimo tornati al Settecento inglese, quando il sistema politico si è guadagnato l’epiteto di ‘Old Corruption’.

In reazione a tutto questo è maturata da tempo, anche troppo, la necessità di una politica radicalmente diversa. Bisogna riscrivere le regole della democrazia, aprirne le porte, abolire la concentrazione del potere ed i privilegi dei rappresentanti, cambiarne le istituzioni. E allo stesso tempo bisogna inventare un soggetto nuovo che sia in grado di esprimersi con forza nella sfera pubblica e di raccogliere questo bisogno di una nuova partenza. I due livelli – la democratizzazione della vita pubblica del paese e la fondazione, anche a livello europeo, di un soggetto collettivo nuovo, si intersecano e ci accompagnano in tutto il manifesto. Le nostre sono grandi ambizioni ma siamo stanchi delle clientele che imperversano, dell’appiattimento della politica su un modello unico, delle partenze che non partono. E poi, con la destra estrema che alza la testa in tutta l’Europa, si fa sempre più pressante lo stimolo ad agire, a non lasciare una massa di persone in balia alle menzogne populiste.

Oggi la sfera separata della politica in Italia, ‘il palazzo’ per intenderci, non rappresenta affatto parti intere del paese: le persone giovani, specialmente del Sud e donne, che non trovano sbocco ai loro sogni e ai loro percorsi educativi; le operaie e gli operai, che vedono giorno dopo giorno minacciati i loro diritti dentro la fabbrica, le commesse e i commessi intrappolati nella catena della distribuzione, i ceti medi del pubblico impiego, quelli della scuola, della sanità, dell’ amministrazione pubblica, che in questi anni sono stati tartassati e disprezzati; i giovani precari, spesso super-qualificati, vittime di una flessibilità selvaggia neoliberista inizialmente introdotta dal centro-sinistra che ha tolto loro dignità e futuro, la rete dei microproduttori e del cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione entrata in crisi con la recessione. Tutti questi elementi possono mobilitarsi nella società per poi trovare nel palazzo solo un muro di gomma o un ascolto distratto. E’ ora di spezzare questi meccanismi perversi. Al loro posto proponiamo un nuovo percorso in cui i cittadini riescano ad appropriarsi, attraverso processi democratici diversi, del potere di contare e di decidere.

La ‘poesia pubblica’, per utilizzare la frase del poeta americano Walt Whitman, deve entrare nella storia della Repubblica. E lo farà quando un gruppo sempre più grande di cittadini (donne ed uomini) qualificati, informati e attivi decideranno di farne la loro bandiera.

A. Diffondere il potere, non concentrarlo.

Oggi le decisioni sono sempre prese altrove – non a livello comunale ma regionale, non nel parlamento romano ma a Bruxelles, non a Bruxelles ma a Francoforte, non alla BCE ma dai ‘mercati’, strane creature che vivono solo di giorno ma che decidono tutto lo stesso, sia per il giorno che per la notte. Il nostro compito è di frenare per quanto possiamo questa fuga decisionale verso l’alto, l’inspiegabile e l’astratto. Bisogna innescare un processo opposto che destituisca, decostruisca, ceda, decentri, abbassi, distribuisca, diffonda il potere. Bisogna riaffermare la validità della dimensione territoriale locale (ma non’ localistica’), espandendo tutti quegli spazi in cui il governo e il cittadino sono vicini l’uno all’altro. Il comune è uno di questi. Carlo Cattaneo, una delle più belle ed inascoltate voci del nostro Risorgimento, nel 1864 descrisse il comune come ‘la nazione nel più intimo asilo della sua libertà’. E aggiunse, con un pizzico di amarezza: ‘pare che fuori di codesto modo di governo la nostra nazione non sappia operare cose grandi’. Ridare spazio e poteri ai comuni, e metterli in contatto tra di loro sarebbe già in sé una ‘cosa grande’. La Rete dei comuni per i beni comuni punta in questa direzione, verso una valorizzazione profonda dei beni comuni e dei diritti fondamentali ad essi collegati. E punta anche ad agire dal basso verso l’alto, costituendo una sede congeniale per proposte da sottoporre alla Commissione Europea ai sensi del Trattato di Lisbona e del reg. UE n.211/2001. Si pensi, per esempio, al progetto di una ‘Carta Europea dei Beni Comuni’, così come deliberato dal Comune di Napoli, mediante la quale inserire la nozione di bene comune tra i valori fondanti dell’Unione e fronteggiare la dimensione puramente mercantile (market oriented) del diritto comunitario. In questo modo il potere locale riesce ad aggregarsi, a contare a livello nazionale, a diventare forza anche transnazionale ma sempre quale attuazione di un indirizzo politico espresso dal basso e soprattutto dalla cittadinanza attiva.

Non basta. Il comune è un’istituzione costituzionale, non un’aggregazione di una certa tendenza politica. Un soggetto politico nuovo dovrebbe impegnarsi su tanti terreni, sia dentro le istituzioni che fuori, cercando sempre di coniugare fra di loro livelli diversi della democrazia: quella rappresentativa, quella partecipativa e quella di prossimità. In prima istanza esso dovrebbe interagire con le forze e movimenti della società civile. Essi agiscono per una grande varietà di motivi – in nome dell’ambiente, in difesa dei diritti dei lavoratori, per la legalità e contro la criminalità organizzata, per la dignità e la parità delle donne – in un mondo (e un mondo di lavoro) ancora profondamente patriarcali. Nel rapporto tra i generi l’eguaglianza non può limitarsi alle “pari opportunità” cioè ad accomodamenti (pur necessari) dentro un sistema che resta immutabile, ma diviene un processo in grado di sovvertire l’esistente. Chi vive una situazione di ineguaglianza non può limitarsi a voler essere uguale a chi si ritiene superiore o più potente, al contrario aspira al superamento dei vecchi modelli.

Tutte queste istanze della società civile sottolineano giustamente la loro specificità e autonomia; molte insistono anche sull’informalità e spontaneità delle loro strutture. Ma allo stesso tempo tutte hanno un bisogno disperato di connettersi fra loro e con le sedi decisionali, di presentare i loro punti di vista nelle istituzioni e di riformare quelle istituzioni stesse. Si cerca un nuovo tipo di relazione politica: che forma potrebbe mai assumere una volta che ci si rende conto dell’inadeguatezza del sistema attuale della rappresentanza?

B. Il nuovo spazio pubblico della democrazia

A metà dell’Ottocento John Stuart Mill era convinto che il nuovo sistema rappresentativo garantisse a ‘tutte le voci ‘ del Regno di farsi sentire nel parlamento. La storia gli ha dato torto. Anche in virtù della deriva maggioritaria, i parlamenti si sono sempre più allontanati dal paese reale, e sempre più i parlamentari rappresentano, in primo luogo, se stessi. La democrazia rappresentativa ha bisogno, dunque, sia di una sua riforma interna in senso proporzionale, sia di essere arricchita da nuove forme di democrazia partecipativa. Ciò che vale per il sistema politico nazionale è ancora più vero per i partiti in cui la democrazia ha sempre fatto fatica ad imporsi. La teoria che sottende ai cambiamenti deve essere resa esplicita: il sistema rappresentativo è l’unico che garantisce la partecipazione di tutti i cittadini in condizioni di voto segreto. Esso gioca di conseguenza un ruolo insostituibile. Ma per affrontare l’attuale crisi deve essere associato alla democrazia partecipativa E il punto cruciale riguardante il rapporto tra i due risiede nel fatto che l’attività costante della partecipazione alimenta e garantisce, stimola e controlla la qualità della rappresentanza e la qualità della politica pubblica.

In altre parole è emersa in questi ultimi anni una domanda esplicita di rottura che ha al suo centro una nuova percezione dello spazio pubblico, che non può essere ridotto né all’attività, sempre più degradata, dei partiti, né ai codici di per sé privatistici, del “mercato”. Tra i cittadini è cresciuto il desiderio di riappropriarsi di ciò che è comune, non solo beni ma anche processi. La democrazia si allarga e diventa più inclusiva: delle nuove forme di partecipazione dei cittadini, della gestione dei beni comuni, della società civile che interagisce, in piena autonomia, con una sfera politica che si apre alla cittadinanza invece di chiudersi come un riccio.

Processi di questo tipo cambierebbero in positivo anche il delicato rapporto tra privato e pubblico. Nei decenni del neoliberismo abbiamo assistito al trionfo del privato, declinato in vari modi: consumismo, chiusura nell’interesse personale, familismo, evasione fiscale; ma anche, sul versante opposto, solitudine, frammentazione, esclusione. Sarebbe ora di riattivare e riapplicare quella rivoluzionaria intuizione del movimento delle donne degli anni ’60 e ’70: ‘il personale è politico’. Le persone, uomini e donne, devono riflettere sul loro ‘privato’ – i loro valori, consumi, strategie individuali e familiari. Questa riflessione ha rilevanza per lo spazio pubblico di più grande emergenza – l’ambiente. Una visione ecologica del mondo incentrata sui beni comuni richiede una trasformazione qualitativa e relazionale del rapporto tra spazi pubblici e privati, così da perseguire la giustizia ambientale e sociale. I destini del pianeta non possono essere affidati esclusivamente ad interessi individualistici, guidati dal tasso di profitto a breve termine e dalla negazione della dignità del lavoro. In coerenza con una visione ecologica del mondo incentrata sui beni comuni, occorre invece coniugare i doveri e i diritti, per costruire relazioni equilibrate per l’insieme della collettività.

Troppe volte la ‘partecipazione’, come viene praticata dai partiti ansiosi di dimostrare la loro disponibilità e la loro ‘modernità’, ha assunto il volto dello ‘sfogatoio’, con assemblee caratterizzate da un confusionismo generale. Occorre invece uscire da questa mistificazione della sovranità popolare, e allo stesso tempo destrutturare una sovranità popolare totalmente fondata sulla delega. Occorre trasformare il livello prepolitico della partecipazione in diritto alla democrazia. Possiamo infatti mutuare i principi della Convenzione europea di Aarhus – legge dello Stato a partire dal 2001. La Convenzione, attraverso l’istituto della partecipazione, riduce la discrezionalità delle scelte politico-amministrative, obbligando le istituzioni a prendere in considerazione le istanze partecipative e ad argomentare in maniera più circostanziata le proprie decisioni.

In questo senso il Laboratorio Napoli “Per una Costituente dei beni comuni” prevede sedici consulte divise per macro-aree che si interfacciano con i singoli assessorati attraverso il ruolo dei facilitatori. L’informazione deve costituire il presupposto per una reale partecipazione. Il processo partecipativo è normato e calendarizzato, la sua violazione può determinare l’annullamento degli atti amministrativi. Ciò rende certo il processo evitando forme fasulle e confusionarie della partecipazione, ponendosi come un esempio del necessario connubio tra rappresentanza e partecipazione.

Un altro esempio di partecipazione, disegnato per la consultazione di un grande numero di cittadini, è il referendum on line che, preceduto dalla necessaria dispensa di informazione bi-partisan, può portare alle decisioni in tempi rapidissimi.

Un altro ancora viene chiamato PARTY (partecipazione attiva riunendo tavoli interagenti). E’ un metodo ispirato a due fra i più diffusi (Town meeting e Open Space Technology), che permette di discutere e decidere insieme sia su questioni locali che nazionali. Un’assemblea, ad esempio, viene divisa in tavoli di dieci-quindici persone ciascuno. I/le partecipanti, che possono non conoscersi affatto, affrontano i temi a loro sottoposti. Per ogni tavolo si sceglie una persona per facilitare il dibattito, un’altra per prendere appunti. Dopo una lunga e informata discussione in un arco di tempo prestabilito, ogni tavolo cerca di esprimere nel report un’opinione collettiva che può anche comprendere proposte diverse. Alla fine, una sintesi di tutto il lavoro svolto viene presentato alla plenaria. L’interazione tra chi partecipa ai tavoli e la possibilità di essere praticata a costi contenuti e con un uso ottimale delle tecnologie informatiche, costituiscono un pregio particolare di questo tipo di democrazia partecipativa.

Di tutte le forme di democrazia partecipativa, quella iniziata nella città di Porto Alegre in Brasile rimane una delle più convincenti, e per tre ragioni principali: la prima perché la partecipazione è calendarizzata, con un forte senso di continuità temporale durante l’anno, non limitata a una singola occasione. La seconda perché prevede un gran numero di luoghi e livelli di partecipazione, dagli incontri di strada (street meeting) di gennaio al Consiglio di bilancio in settembre, alla solenne adozione del bilancio partecipativo da parte del consiglio municipale e del sindaco a fine anno. E la terza perché è un processo, non un momento, che contribuisce così alla formazione di un prezioso capitale per qualsiasi democrazia – gruppi crescenti di cittadini informati, attivi e con idee chiare su che cosa costituisce una cultura democratica. Dobbiamo trovare, declinando in più di un modo la democrazia partecipativa, la forza per portare avanti una vera rivoluzione culturale fatta di trasparenza e responsabilità.

C. Forme e pratiche di una nuova aggregazione

La degenerazione degli attuali partiti politici oscura e mortifica gli ideali di molte persone che, soprattutto a livello di base, vi militano in buona fede e con generosità. La volontà di partecipazione, di “far da sé”, di riprendere in mano il bandolo del discorso pubblico, richiede invece un modello di pratica e di organizzazione politica radicalmente altro rispetto a quello formatosi nel lungo ciclo novecentesco. Non possiamo più accettare un modello incentrato sulla stretta identificazione di “sfera pubblica” e di “sfera politica” con un tendenziale primato della seconda sulla prima, in quanto luogo di espressione della “forma partito” intesa come unico soggetto dotato di voce e legittimazione.

I nostri Costituenti, nello scrivere l’art. 49, avevano immaginato i partiti come luoghi di mediazione, corpi intermedi fra società e istituzioni politiche. Luoghi nei quali potesse formarsi e organizzarsi il consenso. Ma il principio costituzionale che i partiti devono concorrere “con metodo democratico” alla vita politica nazionale, è stato realizzato solo parzialmente, in riferimento alle relazioni esterne dei partiti. In realtà s’immaginava che il metodo democratico dovesse valere soprattutto nel funzionamento interno dei partiti, sulla base di principi quali la solidarietà, l’eguaglianza, la pari dignità, la trasparenza. Una volontà velocemente disattesa da un sistema  politico che si è progressivamente  organizzato con strutture opache, piramidali, fortemente escludenti.

I partiti politici attuali sono così diventati organizzazioni completamente  anacronistiche rispetto ad un modello di democrazia che non può più  esaurirsi nella rappresentanza e nella delega. Il fondamento giuridico leggero che li intende quali libere  associazioni di cittadini non riconosciute (Codice civile) risulta  paradossale. Essi incredibilmente si trovano nella posizione di godere da un lato di tutti i benefici di un soggetto privato,  dall’altro di avere accesso ad ingenti risorse pubbliche. Un mostro a due teste che si appella al diritto di  riservatezza, proprio dei soggetti privati, mentre vive di risorse  pubbliche in una dimensione opaca, espressione di corruzione e  perversa contaminazione di interessi pubblici-privati.

Noi vogliamo invece affermare l’interpretazione autentica dell’espressione “metodo democratico”, vogliamo un soggetto politico che, oltre i partiti, sappia muovere dai fondamenti costituzionali per creare nuovi modelli di partecipazione politica, fondati sulla passione, la trasparenza e l’altruismo.

In primo luogo il soggetto nuovo, nelle sue regole e pratiche, dovrebbe mettere l’accento sull’inclusione. L’immagine dei partiti arroccati ai propri privilegi e separati dal resto della società, dediti all’hollowing out, allo svuotamento della democrazia – sempre più potere nelle mani della leadership, sempre meno democrazia interna, sempre meno iscritti (Peter Mair) – dovrebbe cedere il passo a un’altra, totalmente diversa, basata sull’allargamento dello spazio pubblico della politica, non sulla sua restrizione. Dentro questo spazio, non più separato dalle istanze della società, si muoverebbe una pluralità di attori politici nuovi. Si passa così dall’esclusione verticistica (il tesserato come spettatore passivo degli show dei suoi leader) all’inclusione orizzontale: il cittadino come agente in una struttura basata su regole democratiche. La struttura del nuovo soggetto non sarebbe piramidale ma confederale, senza un centro ‘nazionale’ fisso ma con un coordinamento itinerante e a rotazione che si sposta regolarmente da regione a regione. I singoli individui si aggregano in modo egualitario sia alla sfera della discussione e della decisione, sia a quella dell’azione, ognuno nei limiti delle sue possibilità e delle sue disponibilità di tempo. A tutti i livelli cerchiamo le forme politiche che consentiranno realisticamente la possibilità di confrontarsi e decidere insieme (vedi sopra nel paragrafo B). Ci interessa un luogo dove si sperimentino pratiche fondate sul “potere di” piuttosto che sul “potere su”.

Il “soggetto nuovo” nascerà da un’istanza diametralmente opposta a quella che ha guidato quasi tutti i processi organizzativi novecenteschi. Organizzarsi, secondo quel modello significava unificare gli identici, raccogliere in un unico contenitore (modellato gerarchicamente sulla struttura statale) gli “omogenei” – coloro che condividono gli stessi valori, gli stessi linguaggi, gli stessi ideali, gli stessi interessi e gli stessi luoghi. Crediamo invece che organizzare, oggi, voglia dire mettere in connessione le diversità: culturali, etniche, linguistiche. Inventare la forma della convivenza in un mondo e in una società in cui quello che era distante e separato tende a convergere e intrecciarsi. L’organizzazione politica dovrebbe essere il grande laboratorio in cui si inventano e si forgiano i nuovi linguaggi di un dialetto universale in grado di superare la separatezza Una politica che sappia emanciparsi dalla coppia schmittiana “amico-nemico”. Che sappia trovare la propria “essenza” non nell’esclusione reciproca (e nel conflitto tra identità chiuse e separate) ma nell’inclusione e nella contaminazione-connessione-ibridazione tra identità.

Una serie di regole semplici e condivise che in questi anni sono diventate patrimonio comune determineranno il comportamento del nuovo soggetto nelle istituzioni e fuori di esse. Adozione di un codice etico e dunque politico nella ricerca e accettazione dei finanziamenti, rifiuto della gestione clientelare di risorse e consulenze, primarie per la selezione dei candidati o assemblee partecipate nei piccoli comuni, limiti e vincoli di mandato, rotazione negli incarichi di direzione, trasparenza nell’uso delle risorse. La vita interna del nuovo soggetto si baserà anch’essa su alcune semplici regole di base: prendere le decisioni ricercando in modo prioritario il massimo consenso possibile; quando occorre procedere al voto con il sistema “una testa un voto”, unire il rispetto delle decisioni maggioritarie con la salvaguardia dei diritti delle minoranze, possibilità per tutti di votare in modo regolare e segreto. Nelle riunioni del nuovo soggetto, considerazioni di genere devono assumere un posto di massima importanza: nessuna tolleranza per i soliti maschi accentratori. Tempi stretti di intervento, ascoltare ciascuno/a e fare in modo che ciascuno/a parli, report tempestivi delle riunioni.

La chiave della vita interna dovrebbe essere la prevenzione insieme all’invenzione: prevenzione di tutte quelle forme di burocratizzazione e di oligarchia che hanno sempre caratterizzato i partiti socialdemocratici (per non parlare di quelli democristiani), un’invenzione che si nutre di una partecipazione dal basso sempre più formata politicamente: negli ultimi anni, tante delle persone coinvolte nelle campagne referendarie e in mobilitazioni simili si sono informate, studiando, sostituendosi così ai partiti nelle proposte di nuove politiche. La formazione, ormai assente nelle strutture partitiche (con gravi danni non solo a livello nazionale, ma anche nelle amministrazioni locali, con politici sempre più ignoranti) è un terreno su cui ritornare a impegnarsi. Più estesa la scala, più arduo diventa il nostro compito. In ogni caso la nuova democrazia deve camminare mano in mano con l’efficacia. Oltre al come si decide, diventa importante come si funziona. E’ del tutto inutile rimpiazzare la repubblica delle banane o quella dei “tecnici” con una delle chiacchiere.

Lavoriamo per stemperare, rendendolo dinamico, il confine fra le persone che partecipano a campagne e gli iscritti. Pensiamo ad allargare il potere decisionale a tutti, attraverso consultazioni vincolanti tramite voto referendario e primarie, per la materia elettorale e non solo.

D. Comportamenti e passioni

Le regole formali, preziose e insostituibili, non sono sufficienti. Ad esse va associata la lenta ma costante creazione di una cultura profondamente diversa. Per troppo tempo abbiamo scelto di escludere dal campo della politica qualsiasi riflessione sulle passioni e sui comportamenti individuali. Un esempio fra tanti: la cultura della pace. Siamo bravi a predicare la non-violenza a livello internazionale ma molto meno a praticarla come virtù sociale. Le relazioni tra di noi nella sfera pubblica politica rimangono piuttosto primitive, senza alcun guida. Anzi. Abbiamo accettato fin troppo facilmente che la nostra pratica politica sia intrisa della violenza e della competitività, una forma di ‘neo-liberismo interiorizzato’. Superare una cultura così longeva e insidiosa non è questione di una stagione politica. Ma riconoscere la legittimità del tentativo è già un grande passo in avanti.

Quando parliamo delle passioni e delle emozioni viene in mente primo di tutto un discorso sul loro governo. Tante volte consentiamo che siano le passioni negative – l’invidia, l’odio, l’orgoglio, l’ira – e i comportamenti sociali che ne derivano – la rivalità, la voglia di sopraffare, il perseguimento dei propri interessi in modo esclusivo – a guidare le nostre azioni. E spesso lo facciamo con una grande inventiva, rappresentando i dissidi come ‘differenze oggettive ’, negando con veemenza le loro origini soggettive. Questo approccio rende la sfera pubblica politica paragonabile a una grande giungla preistorica, dominata da ‘ego-mostri’ – politici moderni gonfiati dall’attenzione incessante dei media. Un primo passo, dunque, verso una nuova politica in questo campo sarebbe un discorso centrato sul governo e sull’autogoverno delle passioni, l’invito forte all’autodisciplina, la produzione di un codice di comportamento.

Soprattutto dobbiamo negare spazio a una delle passioni più dannose – il narcisismo. Siamo stufi di leader narcisi e non vogliamo  semplicemente affidarci a figure carismatiche, incoraggiate al massimo dalla moderna personalizzazione della politica. Non sopportiamo il protagonismo sfrenato e l’auto-compiacimento senza fine. Se il nuovo soggetto politico venisse concepito come veicolo per una leadership che si presenta in questo modo, avrebbe poca possibilità di crescere e fiorire.

Le passioni non esistono però solo per essere governate. Una seconda riflessione invita al superamento della classica contrapposizione tra ragione e emozioni, la prima vista come positiva e civilizzante, le seconde giudicate negative e primitive. Certe emozioni e i comportamenti sociali che ne derivano costituiscono invece una risorsa preziosissima per la sfera pubblica politica: la compassione e la gioia, l’amore e la speranza, la generosità e il rispetto per gli altri. Non cerchiamo una nuova sfera politica di auto-abnegazione e di sacrificio, in cui l’individuo si annulli a servizio della causa comune. Cerchiamo invece l’autorealizzazione individuale in un contesto collettivo radicalmente nuovo, all’insegna dell’eguaglianza. Sarebbe interessante sperimentare di più il sentimento dell’empatia, cioè la capacità di mettersi nei panni dell’altra/o, in termini non solo personali ma politici, praticando quella “salda comunanza” (Martha Nussbaum) che esalta le facoltà tipicamente umane di scelta e di socialità.

Tutto questo può trovare una prima verifica nella sfera della micro-politica, la cultura sottostante e di supporto alle regole formali e alle grandi riunioni nazionali. E’ qui che i partiti politici tradizionali danno il peggio di sé. Abbiamo visto dirigenti dei partiti venire alle riunioni e poi leggere ostinatamente i giornali finché non è il loro turno di parlare o quello di un altro dirigente (rivale). Abbiamo visto ovunque i tipici atteggiamenti maschili – non solo di uomini – per cui ci si preoccupa solo del proprio intervento, poi si riaccendono i cellulari e ci si mette a chiacchierare in fondo alla sala. Tutti arrivano in ritardo: più importante sei, più in ritardo arrivi. Tutto l’impasto di una riunione o di un’assemblea assume l’aspetto livido di una contusione, di una profonda e persistente ferita alla democrazia. Da quel terreno cosa può scaturire di nuovo o di buono?

A livello di micro-politica un soggetto nuovo metterebbe invece l’accento su un modo di comportarsi radicalmente diverso, all’insegna dell’eguaglianza e della cooperazione fra generi, della capacità di ascoltare, della puntualità, dell’incoraggiare alla partecipazione i più timidi o chi ha meno esperienza. Ritroverebbe una fisicità della politica oltre le reti virtuali di Internet, avrebbe attenzione alla massima circolazione dell’informazione interna e cura che i nuovi partecipanti non si sentano “ospiti”, ma protagonisti alla pari degli altri. A predominare sarebbero le virtù sociali della mitezza e della fermezza. Il mite, scrive Norberto Bobbio, ‘è l’uomo [donna] di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé’. Alle sue qualità intrinseche ne viene aggiunta un’altra – quella della fermezza, la capacità di non cedere, come ci ha insegnato Gandhi, ma di insistere con pacatezza. Così la cultura politica nuova si distanzia mille miglia da quella classica del Novecento, basata com’era in grande parte sul machiavellismo, sulla realpolitik, sulla furbizia e l’autoreferenzialità.

Per concludere:

quattro nodi radicali e di rottura per un soggetto politico nuovo e una proposta
  1. Si rompe con il modello novecentesco del partito, introducendo nuove regole e pratiche: trasparenza non segretezza, semplicità non burocrazia, potere distribuito non accentrato, servizio non carrierismo, eguaglianza di genere non enclave maschili, direzione e coordinamento collettivo e a rotazione, non di singoli individui carismatici.
  2. Si rompe con questo modello neo liberista europeo che vuole privatizzare a tutti i costi, che non ha alcuna cultura dell’eguaglianza, che minaccia a morte lo stato sociale, la dignità e sicurezza del lavoro. Si insiste invece sulla centralità dei beni comuni, la loro inalienabilità, la loro gestione democratica e partecipata.
  3. Si rompe con la visione ristretta della politica, tutta concentrata sul parlamento e i partiti. Si lavora invece per un nuovo spazio pubblico allargato, dove la democrazia rappresentativa e quella partecipata lavorano insieme, dove la società civile e i bisogni dei cittadini sono accolti e rispettati.
  4. Si riconosce l’importanza della sfera dei comportamenti e delle passioni, rompendo con le pratiche mai esplicitate ma sempre perseguite dal ceto politico attuale: la furbizia, la rivalità, la voglia di sopraffare, il mirare all’interesse personale. Al loro posto mettiamo l’inclusività, l’empatia, la mitezza coniugata con la fermezza.

Una proposta:

Il futuro di questo manifesto, del progetto di radicale rinnovamento della soggettività politica che esso propone, è nelle mani di tutti e tutte coloro che lo desiderano attivamente. Si può iniziare dall’impegno a promuovere incontri, inventare momenti partecipativi e occasioni di confronto fondate su una comune condizione sociale o sul radicamento attivo nei territori. Una mobilitazione diffusa e connessa, che non imponga esclusività di appartenenze e che si ritrovi poi in un primo appuntamento nazionale.

Inoltre si può pensare che sia positiva la presenza alle elezioni amministrative di liste di cittadinanza politica che prendano a riferimento e contribuiscano a costruire questo progetto nazionale. Una rete orizzontale di rappresentanza che sia radicata nei territori e connotata dagli elementi di metodo prima indicati: democrazia, governo partecipato dei beni comuni, etica, nuova cultura delle relazioni. Non si tratta di aggiungere sigle contro tutto e tutti, né di sommare esperienze locali che restano locali, tanto meno di chiudersi nel recinto di una radicalità ideologica.

Vogliamo costruire un soggetto che determini una trasformazione complessiva, costruisca anche alleanze e mediazioni ma con l’ambizione tutt’altro che minoritaria di mettere in campo un’altra Italia. Di lavorare per un’altra Europa.

Primi firmatari: Andrea Bagni, Paul Ginsborg, Claudio Giorno, Chiara Giunti, Alberto Lucarelli, Ugo Mattei, Nicoletta Pirotta, Marco Revelli, Massimo Torelli, (Redattori del testo) Giuseppina Antolini, Danila Baldo, Giuliana Beltrame, Piero Bevilacqua, Valter Bonan, Paolo Cacciari, Nicoletta Cerrato, Adelaide Coletti, Emmanuele Curti, Sergio D’Angelo, Giuseppe De Marzo, Gianna De Masi, Silvia Dradi, Luigi Ferrajoli, Dario Fracchia, Luciano Gallino, Domenico Gattuso, Luca Giunti, Celeste Grossi, Danilo Lillia, Marinunzia Maiorani, Teresa Masciopinto, Luca Nivarra, Leo Palmisano, Livio Pepino, Tonino Perna, Riccardo Petrella, Anna Picciolini, Marina Pivetta, Sandro Plano, Chiara Prascina, Corinna Preda, Giuliana Quattromini, Leana Quilici, Alessandro Rampiconi, Domenico Rizzuti, Stefano Rodotà, Chiara Sasso, Enzo Scandurra, Laura Tonoli, Mapi Trevisani, Vittorio Vasquez, Fulvio Vassallo Paleologo, Guido Viale.

Fonte: ALBA

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Nasce Alba, il non-partito che cerca un posto al sole

Assemblea a Firenze del «soggetto politico nuovo». Che ora ha un nome-marchio, Alba, e grandi aspirazioni. È il primo passo di un «work in progress». 

  Riccardo Chiari
29.04.2012






Con la studiata strategia d'azione di un progetto in costante divenire ma già con l'evocativo nome Alba, quello che fino a ieri si chiamava Soggetto politico nuovo muove il suo primo passo. Ben attento a restare in equilibrio, per non imboccare subito i vicoli ciechi del "nuovo partito" - l'ennesimo alla sinistra del Pd - o della stanca riedizione dei girotondi dell'ormai lontanissimo biennio 2001-03. 
 
Un work in progress insomma, forte della buona conoscenza, a tutti i livelli, dei meccanismi della comunicazione, come dimostra il nome-marchio che è l'acronimo di Alleanza lavoro-beni comuni-ambiente. Forte anche di un lavoro ormai di lunga data, almeno da parte del gruppo dei fiorentini della «Sinistra unita e plurale» che ha organizzato l'assemblea aperta al palasport Mandela forum, sui metodi di una partecipazione che sia quanto più possibile inclusiva. Ancora da definire invece sul piano dell'effettiva consistenza, nonostante possa essere considerata un successo la presenza di circa 1.400 persone all'iniziativa. E su quello del programma di lavoro, le cui basi sono comunque ben sintetizzate da Marco Revelli in apertura di giornata : «Partiamo dalla pregiudiziale antiliberista, cioè la constatazione del fallimento totale del dogma che ci ha portato alla catastrofe attuale e la necessità di contrapporgli un organico modello alternativo. In parallelo dalla centralità della questione del lavoro, a cominciare dalla difesa intransigente dello Statuto dei lavoratori nella sua integralità». Quanto alla domanda che tutti si fanno, e cioè l'eventuale partecipazione alle elezioni politiche, in chiusura Massimo Torelli chiarisce: «Il soggetto politico nuovo 'Alba' nasce perché speriamo ci sia un numero elevato di cittadini che non trova nell'attuale offerta politica un suo riferimento ideale. Non ci siamo dati la scadenza del 2013, il percorso avviato oggi andrà avanti di tappa in tappa, e a seconda di quanta partecipazione riusciremo ad attivare, stabiliremo tutti insieme che fare». Nel segno, ancora una volta, di quella «metafora del viaggio» assai cara a Paul Ginsborg, che già nella stagione dei forum sociali segnalava l'importanza del «camminare insieme», anche rispetto all'approdo finale.

Per certo dall'assemblea è emersa ancora una volta una aperta critica ai partiti «nella loro forma novecentesca», così come evidenziato in apertura da Revelli: «Se siamo qui, in questo sabato di ponte, è perché avvertiamo che non c'è più tempo: che i pilastri fondamentali che la Costituzione aveva posto alla base della nostra democrazia - intendo i partiti politici - stanno sgretolandosi. E rischiano di trascinare nel loro crollo le stesse istituzioni repubblicane». Al tempo stesso non sfugge a Revelli il pericolo del «soggetto esclusivo».

 Tanto da fargli fare una importante precisazione: «Siamo per l'appartenenza plurima. Per l'apertura a tutti coloro che condividono questo stile 'altro', anche se militano, contemporaneamente, in un'altra organizzazione».

Se l'obiettivo del soggetto politico nuovo Alba è quello di una nuova cittadinanza («Quella che ha mostrato il proprio profilo esattamente un anno fa, con la vittoria referendaria e con i risultati 'eretici' delle amministrative in molti comuni»), c'è chi, come Alberto Lucarelli, insiste sulla critica delle attuali forme di partito: «Oggi sono fisiologicamente inadatte alle realizzazione dell'articolo 49 della Costituzione, per questo è necessario un nuovo soggetto che non abbia paura di confrontarsi con la rappresentanza e le elezioni». Un nuovo soggetto che ad esempio lavori, da subito, per raccogliere le 500mila firme necessarie a un referendum contro il fiscal compact in modo da allargare le rete dei potenziali sostenitori. Sull'altro fronte Nicola Fratoianni di Sel riconferma l'importanza dell'appuntamento autunnale degli Stati generali del centrosinistra: «Saranno gli stati generali del futuro, per costruire un processo largo in cui tutti siano protagonisti». Mentre Paolo Ferrero di Rifondazione, che si trova d'accordo con gli assi cartesiani programmatici evidenziati da Revelli, segnala ancora una volta la necessità di un fronte unitario e plurale: «Rispettoso delle differenze, perché oggi l'attività politica viene fatta in maniera plurale e non si può ricondurre 'ad uno', e al tempo stesso metta insieme tutti coloro a cui non piacciono né il governo Monti né soprattutto le sue politiche». Perché a tutti, ricorda applauditissimo Giorgio Airaudo della Fiom, non deve sfuggire un dato di fatto: «Serve qualcosa di grande per rappresentare il lavoro, che ne ha un gran bisogno, e affrontare battaglie non per testimonianza ma per vincerle. E chiunque voglia affrontare le elezioni del 2013 in modo credibile, non può non dire come si correggono i disastri delle 'riforme', da quella delle pensioni a quella del mercato del lavoro». 

Fonte: Il Manifesto

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Intervista a Paul Ginsborg su ALBA – (L’Unità)

31 maggio 2012

Il professor Paul Ginsborg  racconta che sono in molti a chiedersi come il nuovo soggetto politico Alba (Alleanza Lavoro Benicomuni Ambiente), creato insieme a Ugo Mattei, Marco Revelli, Paolo Cacciari, Chiara Giunti, Nicoletta Pirotta e Alberto Lucarelli, si stia attrezzando in vista del 2013.

Professore, non è ancora il tempo di parlarne? Le elezioni si avvicinano.
«Siamo appena nati, è molto presto per noi prendere una posizione sulle elezioni. Certamente vorremmo fare parte di una cultura di sinistra che contribuisce alla sconfitta  del berlusconismo. Ma ci siamo visti solo una volta ad aprile,  la prossima sarà  alla fine di giugno  e lì sperimenteremo una vera forma di democrazia partecipativa e a parlare non saranno solo “i capi”. In quella sede affronteremo anche il tema delle elezioni. Per ora siamo forti di circa 80 gruppi territoriali, cresciuti con grande rapidità, al di là di ogni previsione».

Un altro segnale che i cittadini mandano chiedendo luoghi di rappresentanza di- versi dai partiti?
«Ha ragione, è una grande  responsabilità quella che sentiamo. Credo che que sto interesse dipenda  dal fatto che nei cittadini c’è l’esigenza di trovare nuove interlocuzioni. In questi mesi abbiamo visto crescere molto in fretta il Movimento  5 Stelle e noi vorremmo porci come un’alternativa a Beppe Grillo per-ché ci sono molte persone che chiedo-no un rinnovamento ma non si riconoscono nel grillismo,  fenomeno che va distinto  da tanti elettori che hanno  votato  M5S. Quello che noi rifiutiamo è proprio  la figura del capo carismatico, questo  Paese ne ha conosciuti  diversi, e quando  vediamo che ce n’è uno che ha addirittura la proprietà del marchio del suo movimento non possiamo  non avvertire  un pericolo  per  la democrazia».

Quindi Alba non avrà capi?
«Alba non avrà capi, meno che mai carismatici, anzi siamo molto sospettosi verso di loro. Sia a destra  sia a sinistra ce ne sono troppi.  Nel nostro Manifesto quello che vogliamo è che lo spazio della politica in Italia, le sue regole, la sua cultura, il suo genere,  troppo  maschile rispetto al resto d’Europa, devono cambiare radicalmente. Non diciamo “facciamo un’alleanza con questo o quel partito”, invitiamo  alla creazione collettiva di una cultura politica diversa».

Ma per dare un vostro contributo dovrà esserci una forma di partecipazione alla competizione elettorale. Guarderete al Pd, farete una lista civica nazionale o cos’altro?
«Arriveremo ad una decisione in modo democratico, anche se mi rendo conto che interessa sapere con chi ci schiereremo e in che modo. A giugno ci vedremo in Emilia Romagna, anche in segno di solidarietà con i terremotati, e stabiliremo modi, forme e tempi».

Pensate  di poter  occupare anche una parte dello spazio a cui oggi guarda Grillo?
«È quello  che ci auguriamo anche  se facciamo  fatica  a far conoscere il nostro progetto, abbiamo  trovato  grandi difficoltà ad avere spazi sui quotidiani. Se ci sono professori di destra, rispettabilissimi, forse possono  essercene anche di sinistra  che hanno  qualcosa  da dire. Io mi appello anche ai tanti del Pd che sono stufi della vecchia politica di venire con noi e dare il proprio  contributo ad un progetto davvero innovativo».

Professore, forse Bersani questo suo appello non lo gradirà…
«Temo proprio  che sia così…».

Fonte: ALBA