[Pare incredibile.
Bersani è riuscito in un'impresa che sembrava impossibile per il PD, destinato come appariva a diventare una nuova DC.
Bersani ha detto di fila due cose "di sinistra": prima ha correttamente definito alcuni atteggiamenti sul web come fascisti, poi ha persino aggiunto: «Provate a chiedermi chi sceglierei tra Vendola e Casini. Mi tengo Vendola... L'alleanza noi la facciamo con i partiti del centrosinistra che ci stanno a governare e Casini non è una forza di centrosinistra.»
Ma è incredibile!!! Ottimo e incredibile!
Bravo il resuscitato!
Forse si è finalmente reso conto che la corsa all'essere più moderato è perdente in partenza. (vedi quanto scritto da Marco Bracconi)
Cosa manca a questo punto?
Una grande alleanza di forze a sinistra che faccia finalmente chiarezza chi sta dalla parte dei privilegiati e chi da quella della gente comune, includendo forze come l'ALBA e l'FDS (che in preda alla confusione, cerca il classico Harakiri con un'alleanza con il partito di destra di Di Pietro) più l'abbandono del governo di destra di Monti.
Un alleanza che ovviamente può essere solo un inizio, un mezzo e non un fine, l'inizio di una cammino in una direzione che ultimamente sembra sia stata totalmente abbandonata: la tutela dei bisogni e delle istanze della gente comune e la realizzazione di una società unita e solidale.
Altro che Cosa Bianca: facciamo la Cosa Seria
Altro che Cosa Bianca.
Facciamo la Cosa Seria.
Un movimento aperto a quel 99 per cento
di cittadini che non vive di rendite e di finanza: che siano giovani o
anziani, deboli o forti – perché anche i forti possono prendere con
onore la responsabilità di essere garanzia degli altri.
Un movimento laico di quella laicità che è la più intelligente garanzia della solidarietà senza esegesi politica.
Nella Cosa Seria le porte sono aperte a tutti coloro che si riconoscono nelle priorità di programma che sono poche e chiare. Nella Cosa Seria ci si impegna ad essere includenti nel senso più pieno: quello che combatte le oligarchie, le iniquità, le rendite di posizione e le corporazioni.
Nella Cosa Seria la memoria è un punto
di programma: la memoria della Storia di questo Paese (la migliore come
stimolo e la peggiore come vaccino) e la memoria delle scelte politiche
delle persone che vogliono starci. I liberisti smodati sono liberisti
smodati, perché ne abbiamo memoria. I sostenitori prostituiti ai
berlusconismi in tutte le sue salse sono incompatibili con noi, perché
ne abbiamo memoria. I fiancheggiatori politici di persone condannate per
mafia sono avversari politici senza mediazioni, perché ne abbiamo
memoria.
Chi ha votato in Parlamento la
sistematica distruzione della scuola, della magistratura, dei diritti
dei lavoratori, delle emergenze per sfamare gli appalti, del suolo
trasformato in appetitoso margine di monetizzazione, delle
infrastrutture utili dimenticate, della sicurezza idrogeologica in nome
del profitto, della sanità pubblica e di tutto ciò che è stato
confiscato ai diritti, nella Cosa Seria non ha posto perché la memoria è
il primo ingrediente della democrazia e i ravveduti dell’ultimo minuto
sono alchimisti che ormai sappiamo riconoscere.
Nella Cosa Seria anche la verità è un
punto di programma: la verità giudiziaria, la verità storica e la verità
politica. Non si parteggia per questo o quel potere: si pretende
l’emersione totale dei fatti e si difende chi lavora per questo. Senza
calcoli elettorali e posizionamenti da patetico risiko politico.
Nella Cosa Seria si dialoga con il cuore
dei partiti: i militanti, gli amministratori, le tante persone serie e
per bene che fanno politica con impegno e passione in giro per l’Italia.
Perché il sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, era un politico, Pio La
Torre era un politico, Peppino Impastato era un attivista politico: la
politica in Italia per molti è stata ed è una Cosa terribilmente e
meravigliosamente Seria.
Nella Cosa Seria l’equità non è un spot
europeista di macroeconomia ma passa attraverso un ridistribuzione dei
diritti e dei doveri, dei costi e dei benefici e soprattutto delle
opportunità. Opportunità garantite a tutti: la meritocrazia passa per
forza da qui.
Nella Cosa Seria vincere le elezioni è un mezzo e non un fine. E anche governare dopo averle vinte è un mezzo e non un fine.
Nella Cosa Seria i diritti civili non
sono più negoziabili con nessuno, né rinviabili, né assoggettabili a
compromessi al ribasso o a diktat provenienti da chi fa della propria
fede un elemento di divisione e non di fratellanza. E per questo, anche
per questo, non sono alternativi ma al contrario strettamente connessi
con i diritti sociali.
Nella Cosa Seria si pensa che i cinque
miliardi di euro spesi finora per bombardare l’Afghanistan siano stati
rubati al welfare, agli ospedali, agli asili nido, alla scuola pubblica.
E che le spese in aerei da guerra o in supercannoni tecnologici siano
solo un furto ignobile ai danni dei pensionati come dei precari.
Nella Cosa Seria si sta insieme, perché
un’alleanza politica non è un matrimonio e quindi non divorzi se il tuo
alleato urla troppo quando parla o è maleducato. Nella cosa seria conta
la politica vera, il programma da realizzare, non le simpatie.
Nella Cosa Seria quando dici «ce lo
chiede l’Europa» pensi alla legge anticorruzione mai fatta, al salario
minimo garantito in Francia, al congedo parentale obbligatorio per i
papà della Svezia, al reddito minimo di cittadinanza garantito da tutti
gli stati europei tranne che da noi, in Spagna, Portogallo e in Grecia.
Pensi a un modello di previdenza sociale che tuteli anche i lavoratori
precari e le donne che devono lasciare il posto di lavoro in gravidanza,
pensi a una legge sulla procreazione assistita che non ti costringa ad
andare all’estero per fare un figlio, pensi al pluralismo
dell’informazione e alla diffusione della rete.
Nella Cosa Seria siamo europeisti convinti, per questo pensiamo che l’Europa unita non sia quella delle banche ma quella dei cittadini, e che i mercati finanziari debbano essere controllati e le speculazioni scoraggiate con misure come la Tobin Tax per privilegiare gli investimenti sul lavoro e l’impresa.
Nella Cosa Seria ci si batte per
un’Europa matura e solidale con un indirizzo comune, un esercito comune,
liste comuni al parlamento europeo e una banca centrale in grado di
mettere al riparo i singoli stati dall’attacco della speculazione
finanziaria.
Nella Cosa Seria pensiamo che ciascuno
sia cittadino del Paese in cui nasce, che l’immigrazione sia una risorsa
e non una minaccia.
Nella Cosa Seria vogliamo che il carcere
serva a rieducare e non a umiliare e che la detenzione sia l’ultima
opzione dopo il ricorso a pene alternative.
Nella Cosa Seria siamo convinti che la
lotta all’evasione si combatta abbassando la soglia del pagamento in
contanti e tracciando i pagamenti. E che sia ingiusto aumentare il
prelievo fiscale ricorrendo all’aumento dell’Iva e non alla
patrimoniale.
Nella Cosa Seria immaginiamo città
liberate dal traffico e dall’inquinamento grazie alle piste ciclabili,
al car sharing, con un trasporto pubblico più efficiente e meno
macchine.
Nella Cosa Seria crediamo che l’Italia
meriti una politica industriale che punta a un modello di sviluppo
sostenibile; nella Cosa Seria pensiamo che si cresca riconvertendo e non
cementificando, puntando sulle energie alternative e non sulle grandi
opere.
Nella Cosa Seria si fanno le primarie, si scelgono i parlamentari, non si decide mai soli, né in due o in tre.
Nella Cosa Seria sappiamo che la parola
“sinistra” nel Paese ha ancora un senso diffuso che non appartiene a
ceti politici né a gruppi dirigenti. È un sentimento, un modo di stare
al mondo, un’appartenenza ideale e concreta che richiede coerenza e che
non può ridursi in piccoli e particolari interessi di bottega, antiche
inimicizie e gelosie d’appartenenza.
Per questo chiediamo che Sinistra
Ecologia e Libertà e una parte consistente del Partito Democratico siano
il motore di una coalizione che sia una Cosa Seria. Che guardi a Italia
dei Valori, Federazione della Sinistra, ALBA, Verdi e tutti coloro che
si riconoscono in un manifesto di posizioni chiare e realmente
governabili, oltre che di governo. Perché non ci piace la strategia
dell’inerzia per capitalizzare il consenso trascinandosi alle prossime
elezioni, ma preferiamo la semplicità e la chiarezza delle idee da
valorizzare insieme. Soluzioni collettive per risolvere i problemi,
insieme: politica presa come una Cosa Seria.
[Peccato per lo scivolone finale.
L'IDV non può e non deve fare parte di una Cosa Seria: l'IDV è un partito reazionario, conservatore, giustizialista, di destra, che ha distrutto e traviato il pensiero di milioni d'Italiani.
Questo documento è stato scritto a molte mani (da Giulio Cavalli, Francesca Fornario, Alessandro Gilioli, Matteo Pucciarelli, Luca Sappino e Pasquale Videtta) ma non ci interessano i padri o i primi firmatari; ci interessa farsene carico e condividerlo. Sul serio.
Fonte: Pasquale Videtta
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Ecco Un Programma politico di sinistra

di Mauro Miccolis
In questi giorni, fioriscono proposte di coalizioni, che consistono
però in un elenco di nomi e non nella presentazione di un programma
politico. Partendo dal programma elettorale di Syriza, nelle recenti
elezione greche, mi sono divertito ad adattarlo alla nostra situazione
socio economica.
Sfido i vecchi politici così ansiosi di riproporre se stessi alla guida del paese, a scrivere un programma migliore di questo:
1. Realizzare un audit del debito pubblico. Annullamento della parte
illegittima del debito, cioè quello realizzato per sostenere i profitti,
per garantire la speculazione delle grandi banche e per sorreggere
un’economia capitalistica in crisi di sbocchi, e quindi di margini di
profitto, e bisognosa di una bolla finanziaria in grado di garantire
l’attività. Sospensione di ogni pagamento sino a quando il PIL = 10%
2. Uscita dall’euro e ripristino della sovranità Monetaria; Lo stato
ritorna ad emettere Banconote di Stato e ad avere una sua Banca,
attraverso la Nazionalizzazione di quelle banche che più hanno ricevuto
aiuti dallo Stato,oppure con la fondazione di una nuova banca.
3. Con la riappropriazione della quarta funzione dello stato
(stampare Moneta), lo stato deve intraprendere una politica di piena
occupazione, si devono dar vita a massicci programmi di investimento
pubblico, nell’istruzione,nella sanità e nella difesa; ma anche
nell’industria attraverso la Nazionalizzazione delle imprese
ex-pubbliche in settori strategici per la crescita del paese (ferrovie,
aeroporti, poste, Telecomunicazioni …) espropriando in modo coatto
grandi aziende come Fiat e ILVA, TELECOM che sono state gestite in
maniera scellerata. Gli investimenti pubblici riguarderanno anche il
settore energetico; l’ Italia deve diventare indipendente
energeticamente attraverso lo sviluppo dello sfruttamento di tutte le
fonti di energia rinnovabile : geo termico,solare, eolico, maree etc.
L’industria automobilistica deve convergere nella medesima direzione
cambiando la tipologia dei motori che devono essere rispettosi
dell’ambiente ed alimentati da energie rinnovabili. Tutta la filiera
industriale deve svilupparsi nel rispetto dell’ambiente, dal progetto
allo smaltimento di un prodotto (se un prodotto non si può interamente
riciclare, non sarà fabbricato e/o commercializzato, questo favorirà una
politica di smaltimento rifiuti basata sulla raccolta differenziata).
L’Italia deve diventare indipendente anche nel settore alimentare: si
deve favorire la produzione interna del fabbisogno alimentare e
disincentivare il commercio di prodotti esteri, coltivabili/allevabili
anche in Italia. Discorso analogo per qualsiasi prodotto o manufatto che
godrà di vantaggi di sgravi fiscali se prodotto in Italia. Chiudere gli
Iper mercati, ed adottare gli empori e negozi di quartiere.
4. Cambiare la legge elettorale perché la rappresentanza parlamentare sia veramente proporzionale.
5. Dar vita ad un sistema di tassazione secondo i dettami della
costituzione, (quindi aliquote più alte per redditi più alti).Aumento
delle imposte sulle società per le grandi imprese, almeno fino alla
media europea.
6. Adottare una tassa sulle transazioni finanziarie e anche una tassa speciale per i beni di lusso.
7. Proibire i derivati finanziari speculativi quali Swap e Cds.Proibire le vendite dei titoli allo scoperto.
8. Abolire i privilegi fiscali di cui beneficiano la Chiesa e le Banche private.
9. Combattere il segreto bancario e la fuga di capitali all’estero per le banche private.
10. Tagliare drasticamente la spesa militare, uscendo dalla NATO e da
tutti i patti internazionali che ci obbligano ad andare in
guerra.Chiudere tutte le basi straniere in Italia.L’esercito Italiano si
occuperà solo della difesa del territorio Italiano.
11. Istituire un reddito di cittadinanza, che permetta a tutti di
vivere dignitosamente, anche se temporaneamente senza lavoro. L’entità
del reddito deve essere nella media europea. Abolizione di tutte le
leggi sul precariato (ad es legge 30) e ripristino della scala mobile.
12. Utilizzare edifici del governo, delle banche e della chiesa per ospitare i senzatetto.Soprattutto le Chiese.
13. Sanità e istruzione saranno garantite dallo stato gratuitamente,
lo stato non sovvenzionerà in alcun modo scuole e sanità privata.
14. Il mutuo per la prima casa sarà disponibile a tasso zero nella banca nazionale.
15. Aumentare la protezione sociale per le famiglie monoparentali, anziani, disabili e famiglie senza reddito.
16. Sgravi fiscali per i beni di prima necessità.
17. Parità salariale tra uomini e donne.
18. Estendere la protezione del lavoro e dei salari per i lavoratori a tempo parziale.
19. Aumentare le ispezioni del lavoro e i requisiti per le imprese che accedano a gare pubbliche.
20. Riformare la costituzione annullando ogni modifica fatta dal 1978
ad oggi, che ne inficia lo scopo (esempio legge di pareggio del
bilancio). Abolizione di ogni intervento fatto dal governo Monti.
21. Sottoporre a referendum vincolanti i trattati e altri accordi rilevanti europei.
22. Abolizione di tutti i privilegi dei deputati. Rimuovere la
speciale protezione giuridica dei parlamentari e permettere ai tribunali
di perseguire i membri del governo.Creare un ramo della Magistratura
che vigili solo sulla disciplina dei parlamentari, e che disincentivi
l’uso delle menzogne in politica, attraverso multe ed espulsione dal
parlamento a seconda della gravità della menzogna o dell’intemperanza
disciplinare.
23.Proibire la presenza di poliziotti con il volto coperti o con armi
da fuoco nelle manifestazioni. Cambiare i corsi per poliziotti in modo
da mettere in primo piano i temi sociali come l’immigrazione, le droghe o
l’inclusione sociale.
24. Garantire i diritti umani in tutti i centri di detenzione.
25. Facilitare la ricomposizione familiare dei migranti che realmente
vogliono stabilirsi in Italia. Permettere che essi, inclusi gli
irregolari, abbiano pieno accesso alla sanità e all’educazione.
26. Depenalizzare il consumo di droghe leggere, combattendo solo il
traffico. Aumentare i fondi per i centri di disintossicazione.
27. Ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan e da qualsiasi altra parte del mondo si trovino.
28. Appoggiare la creazione di uno Stato palestinese nelle frontiere del 1967.
Fonte: Mauro Miccolis
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Io credo
Io credo in un centrosinistra che anteponga l’individuo alla comunità, ma che sappia dire “tu” per dire “noi”.
Io credo in un centrosinistra che riconsegni tricolore e inno di
Mameli alle Istituzioni, ma che il ruolo di quelle Istituzioni lo
rivendichi tutto.
Io credo in un centrosinistra che abbia per patria un’Idea e
nessuna terra, ma che senza timore riaffermi il primato dello Stato
sulla carità.
Io credo in un centrosinistra che consideri Frankenstein un trattato di sociologia, e certe fiaccolate notturne un pessimo film dell’orrore.
Io credo in un centrosinistra che dal pensiero cattolico impari a
bruciare i “boschi sacri”, e da quello progressista a reggere lo
sguardo di Giordano Bruno.
Io credo in un centrosinistra che metta alla berlina gli
spacciatori di identità, e che restituisca ogni “io” alla
imprescindibile verità del suo nome e cognome.
Io credo in un centrosinistra che sappia farsi testimone di un
Uomo che ha piedi per camminare, non radici per marcare il territorio;
posizione eretta per sfidare l’orizzonte, non capo chino per sottostare o
sottomettere.
Una mia -personale- integrazione ad un manifesto che condivido e rilancio:
Noi crediamo che l’obiettivo del centrosinistra non debba essere quello di vincere per occupare e spartirsi posti di potere.
Noi crediamo che l’obiettivo del centrosinistra debba essere vincere per cambiare davvero l’Italia: rendendola un Paese all’avanguardia nel mondo per i diritti civili e sociali, per legalità ed equità, per qualità di welfare e ambiente, per accesso a Internet.
Noi crediamo che il rocambolesco balletto inscenato nelle ultime settimane dai leader dei partiti del centrosinistra attorno alle alleanze sia offensivo nei confronti di milioni di cittadini e di elettori.
Noi crediamo che il centrosinistra possa e debba proporre agli italiani una prospettiva ideale e concreta che non rimanga paralizzata per tutta una legislatura dal mercanteggiamento triste con chi in anni recenti e meno recenti ha rappresentato una delle componenti che ci è più lontana culturalmente, politicamente ed eticamente, e che soprattutto è stata complice di Berlusconi nel portare l’Italia in questa crisi.
Noi crediamo che non sia una questione di ‘veti’ ideologici ma al contrario di pragmatica consapevolezza che una coalizione innaturale non porterà mai ad alcun reale risultato politico, né potrà mai dare all’Italia quella frustata di civiltà e di giustizia di cui ha fortemente bisogno.
Noi crediamo che sia necessario puntare non a una coalizione da sopportare, ma a un progetto da supportare. Non a una mediazione prima ancora di incominciare, ma a una grande sfida da raccogliere. Non crediamo a scelte che provengono da lontano, ma a quelle che lontano ci possono portare.
Fonte: L'anticomunitarista
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Manifesto per un soggetto politico nuovo
per un’altra politica nelle forme e nelle passioni
(pubblicato in data 26 marzo 2012)Non c’è più tempo
Oggi in Italia meno del 4% degli
elettori si dichiarano soddisfatti dei partiti politici come si sono
configurati nel loro paese. Questo profondo disincanto non è solo
italiano. In tutto il mondo della democrazia rappresentativa i partiti
politici sono guardati con crescente sfiducia, disprezzo, perfino
rabbia. Al cuore della nostra democrazia si è aperto un buco nero, una
sfera separata, abitata da professionisti in gran parte maschi,
organizzata dalle élite di partito, protetta dal linguaggio tecnico e
dalla prassi burocratica degli amministratori e, in vastissima misura,
impermeabile alla generalità del pubblico. È crescente l’ impressione
che i nostri rappresentanti rappresentino solo se stessi, i loro
interessi, i loro amici e parenti. Quasi fossimo tornati al Settecento
inglese, quando il sistema politico si è guadagnato l’epiteto di ‘Old
Corruption’.
In reazione a tutto questo è maturata da
tempo, anche troppo, la necessità di una politica radicalmente diversa.
Bisogna riscrivere le regole della democrazia, aprirne le porte,
abolire la concentrazione del potere ed i privilegi dei rappresentanti,
cambiarne le istituzioni. E allo stesso tempo bisogna inventare un
soggetto nuovo che sia in grado di esprimersi con forza nella sfera
pubblica e di raccogliere questo bisogno di una nuova partenza. I due
livelli – la democratizzazione della vita pubblica del paese e la
fondazione, anche a livello europeo, di un soggetto collettivo nuovo, si
intersecano e ci accompagnano in tutto il manifesto. Le nostre sono
grandi ambizioni ma siamo stanchi delle clientele che imperversano,
dell’appiattimento della politica su un modello unico, delle partenze
che non partono. E poi, con la destra estrema che alza la testa in tutta
l’Europa, si fa sempre più pressante lo stimolo ad agire, a non
lasciare una massa di persone in balia alle menzogne populiste.
Oggi la sfera separata della politica in
Italia, ‘il palazzo’ per intenderci, non rappresenta affatto parti
intere del paese: le persone giovani, specialmente del Sud e donne, che
non trovano sbocco ai loro sogni e ai loro percorsi educativi; le
operaie e gli operai, che vedono giorno dopo giorno minacciati i loro
diritti dentro la fabbrica, le commesse e i commessi intrappolati nella
catena della distribuzione, i ceti medi del pubblico impiego, quelli
della scuola, della sanità, dell’ amministrazione pubblica, che in
questi anni sono stati tartassati e disprezzati; i giovani precari,
spesso super-qualificati, vittime di una flessibilità selvaggia
neoliberista inizialmente introdotta dal centro-sinistra che ha tolto
loro dignità e futuro, la rete dei microproduttori e del cosiddetto
lavoro autonomo di seconda generazione entrata in crisi con la
recessione. Tutti questi elementi possono mobilitarsi nella società per
poi trovare nel palazzo solo un muro di gomma o un ascolto distratto. E’
ora di spezzare questi meccanismi perversi. Al loro posto proponiamo un
nuovo percorso in cui i cittadini riescano ad appropriarsi, attraverso
processi democratici diversi, del potere di contare e di decidere.
La ‘poesia pubblica’, per utilizzare la
frase del poeta americano Walt Whitman, deve entrare nella storia della
Repubblica. E lo farà quando un gruppo sempre più grande di cittadini
(donne ed uomini) qualificati, informati e attivi decideranno di farne
la loro bandiera.
A. Diffondere il potere, non concentrarlo.
Oggi le decisioni sono sempre prese
altrove – non a livello comunale ma regionale, non nel parlamento romano
ma a Bruxelles, non a Bruxelles ma a Francoforte, non alla BCE ma dai
‘mercati’, strane creature che vivono solo di giorno ma che decidono
tutto lo stesso, sia per il giorno che per la notte. Il nostro compito è
di frenare per quanto possiamo questa fuga decisionale verso l’alto,
l’inspiegabile e l’astratto. Bisogna innescare un processo opposto che
destituisca, decostruisca, ceda, decentri, abbassi, distribuisca,
diffonda il potere. Bisogna riaffermare la validità della dimensione
territoriale locale (ma non’ localistica’), espandendo tutti quegli
spazi in cui il governo e il cittadino sono vicini l’uno all’altro. Il
comune è uno di questi. Carlo Cattaneo, una delle più belle ed
inascoltate voci del nostro Risorgimento, nel 1864 descrisse il comune
come ‘la nazione nel più intimo asilo della sua libertà’. E aggiunse,
con un pizzico di amarezza: ‘pare che fuori di codesto modo di governo
la nostra nazione non sappia operare cose grandi’. Ridare spazio e
poteri ai comuni, e metterli in contatto tra di loro sarebbe già in sé
una ‘cosa grande’. La Rete dei comuni per i beni comuni punta in questa
direzione, verso una valorizzazione profonda dei beni comuni e dei
diritti fondamentali ad essi collegati. E punta anche ad agire dal basso
verso l’alto, costituendo una sede congeniale per proposte da
sottoporre alla Commissione Europea ai sensi del Trattato di Lisbona e
del reg. UE n.211/2001. Si pensi, per esempio, al progetto di una ‘Carta
Europea dei Beni Comuni’, così come deliberato dal Comune di Napoli,
mediante la quale inserire la nozione di bene comune tra i valori
fondanti dell’Unione e fronteggiare la dimensione puramente mercantile
(market oriented) del diritto comunitario. In questo modo il potere
locale riesce ad aggregarsi, a contare a livello nazionale, a diventare
forza anche transnazionale ma sempre quale attuazione di un indirizzo
politico espresso dal basso e soprattutto dalla cittadinanza attiva.
Non basta. Il comune è un’istituzione
costituzionale, non un’aggregazione di una certa tendenza politica. Un
soggetto politico nuovo dovrebbe impegnarsi su tanti terreni, sia dentro
le istituzioni che fuori, cercando sempre di coniugare fra di loro
livelli diversi della democrazia: quella rappresentativa, quella
partecipativa e quella di prossimità. In prima istanza esso dovrebbe
interagire con le forze e movimenti della società civile. Essi agiscono
per una grande varietà di motivi – in nome dell’ambiente, in difesa dei
diritti dei lavoratori, per la legalità e contro la criminalità
organizzata, per la dignità e la parità delle donne – in un mondo (e un
mondo di lavoro) ancora profondamente patriarcali. Nel rapporto tra i
generi l’eguaglianza non può limitarsi alle “pari opportunità” cioè ad
accomodamenti (pur necessari) dentro un sistema che resta immutabile, ma
diviene un processo in grado di sovvertire l’esistente. Chi vive una
situazione di ineguaglianza non può limitarsi a voler essere uguale a
chi si ritiene superiore o più potente, al contrario aspira al
superamento dei vecchi modelli.
Tutte queste istanze della società
civile sottolineano giustamente la loro specificità e autonomia; molte
insistono anche sull’informalità e spontaneità delle loro strutture. Ma
allo stesso tempo tutte hanno un bisogno disperato di connettersi fra
loro e con le sedi decisionali, di presentare i loro punti di vista
nelle istituzioni e di riformare quelle istituzioni stesse. Si cerca un
nuovo tipo di relazione politica: che forma potrebbe mai assumere una
volta che ci si rende conto dell’inadeguatezza del sistema attuale della
rappresentanza?
B. Il nuovo spazio pubblico della democrazia
A metà dell’Ottocento John Stuart Mill
era convinto che il nuovo sistema rappresentativo garantisse a ‘tutte le
voci ‘ del Regno di farsi sentire nel parlamento. La storia gli ha dato
torto. Anche in virtù della deriva maggioritaria, i parlamenti si sono
sempre più allontanati dal paese reale, e sempre più i parlamentari
rappresentano, in primo luogo, se stessi. La democrazia rappresentativa
ha bisogno, dunque, sia di una sua riforma interna in senso
proporzionale, sia di essere arricchita da nuove forme di democrazia
partecipativa. Ciò che vale per il sistema politico nazionale è ancora
più vero per i partiti in cui la democrazia ha sempre fatto fatica ad
imporsi. La teoria che sottende ai cambiamenti deve essere resa
esplicita: il sistema rappresentativo è l’unico che garantisce la
partecipazione di tutti i cittadini in condizioni di voto segreto. Esso
gioca di conseguenza un ruolo insostituibile. Ma per affrontare
l’attuale crisi deve essere associato alla democrazia partecipativa E il
punto cruciale riguardante il rapporto tra i due risiede nel fatto che
l’attività costante della partecipazione alimenta e garantisce, stimola e
controlla la qualità della rappresentanza e la qualità della politica
pubblica.
In altre parole è emersa in questi
ultimi anni una domanda esplicita di rottura che ha al suo centro una
nuova percezione dello spazio pubblico, che non può essere ridotto né
all’attività, sempre più degradata, dei partiti, né ai codici di per sé
privatistici, del “mercato”. Tra i cittadini è cresciuto il desiderio di
riappropriarsi di ciò che è comune, non solo beni ma anche processi. La
democrazia si allarga e diventa più inclusiva: delle nuove forme di
partecipazione dei cittadini, della gestione dei beni comuni, della
società civile che interagisce, in piena autonomia, con una sfera
politica che si apre alla cittadinanza invece di chiudersi come un
riccio.
Processi di questo tipo cambierebbero in
positivo anche il delicato rapporto tra privato e pubblico. Nei decenni
del neoliberismo abbiamo assistito al trionfo del privato, declinato in
vari modi: consumismo, chiusura nell’interesse personale, familismo,
evasione fiscale; ma anche, sul versante opposto, solitudine,
frammentazione, esclusione. Sarebbe ora di riattivare e riapplicare
quella rivoluzionaria intuizione del movimento delle donne degli anni
’60 e ’70: ‘il personale è politico’. Le persone, uomini e donne, devono
riflettere sul loro ‘privato’ – i loro valori, consumi, strategie
individuali e familiari. Questa riflessione ha rilevanza per lo spazio
pubblico di più grande emergenza – l’ambiente. Una visione ecologica del
mondo incentrata sui beni comuni richiede una trasformazione
qualitativa e relazionale del rapporto tra spazi pubblici e privati,
così da perseguire la giustizia ambientale e sociale. I destini del
pianeta non possono essere affidati esclusivamente ad interessi
individualistici, guidati dal tasso di profitto a breve termine e dalla
negazione della dignità del lavoro. In coerenza con una visione
ecologica del mondo incentrata sui beni comuni, occorre invece coniugare
i doveri e i diritti, per costruire relazioni equilibrate per l’insieme
della collettività.
Troppe volte la ‘partecipazione’, come
viene praticata dai partiti ansiosi di dimostrare la loro disponibilità e
la loro ‘modernità’, ha assunto il volto dello ‘sfogatoio’, con
assemblee caratterizzate da un confusionismo generale. Occorre invece
uscire da questa mistificazione della sovranità popolare, e allo stesso
tempo destrutturare una sovranità popolare totalmente fondata sulla
delega. Occorre trasformare il livello prepolitico della partecipazione
in diritto alla democrazia. Possiamo infatti mutuare i principi della
Convenzione europea di Aarhus – legge dello Stato a partire dal 2001. La
Convenzione, attraverso l’istituto della partecipazione, riduce la
discrezionalità delle scelte politico-amministrative, obbligando le
istituzioni a prendere in considerazione le istanze partecipative e ad
argomentare in maniera più circostanziata le proprie decisioni.
In questo senso il Laboratorio Napoli
“Per una Costituente dei beni comuni” prevede sedici consulte divise per
macro-aree che si interfacciano con i singoli assessorati attraverso il
ruolo dei facilitatori. L’informazione deve costituire il presupposto
per una reale partecipazione. Il processo partecipativo è normato e
calendarizzato, la sua violazione può determinare l’annullamento degli
atti amministrativi. Ciò rende certo il processo evitando forme fasulle e
confusionarie della partecipazione, ponendosi come un esempio del
necessario connubio tra rappresentanza e partecipazione.
Un altro esempio di partecipazione,
disegnato per la consultazione di un grande numero di cittadini, è il
referendum on line che, preceduto dalla necessaria dispensa di
informazione bi-partisan, può portare alle decisioni in tempi
rapidissimi.
Un altro ancora viene chiamato PARTY
(partecipazione attiva riunendo tavoli interagenti). E’ un metodo
ispirato a due fra i più diffusi (Town meeting e Open Space Technology),
che permette di discutere e decidere insieme sia su questioni locali
che nazionali. Un’assemblea, ad esempio, viene divisa in tavoli di
dieci-quindici persone ciascuno. I/le partecipanti, che possono non
conoscersi affatto, affrontano i temi a loro sottoposti. Per ogni tavolo
si sceglie una persona per facilitare il dibattito, un’altra per
prendere appunti. Dopo una lunga e informata discussione in un arco di
tempo prestabilito, ogni tavolo cerca di esprimere nel report
un’opinione collettiva che può anche comprendere proposte diverse. Alla
fine, una sintesi di tutto il lavoro svolto viene presentato alla
plenaria. L’interazione tra chi partecipa ai tavoli e la possibilità di
essere praticata a costi contenuti e con un uso ottimale delle
tecnologie informatiche, costituiscono un pregio particolare di questo
tipo di democrazia partecipativa.
Di tutte le forme di democrazia
partecipativa, quella iniziata nella città di Porto Alegre in Brasile
rimane una delle più convincenti, e per tre ragioni principali: la prima
perché la partecipazione è calendarizzata, con un forte senso di
continuità temporale durante l’anno, non limitata a una singola
occasione. La seconda perché prevede un gran numero di luoghi e livelli
di partecipazione, dagli incontri di strada (street meeting) di gennaio
al Consiglio di bilancio in settembre, alla solenne adozione del
bilancio partecipativo da parte del consiglio municipale e del sindaco a
fine anno. E la terza perché è un processo, non un momento, che
contribuisce così alla formazione di un prezioso capitale per qualsiasi
democrazia – gruppi crescenti di cittadini informati, attivi e con idee
chiare su che cosa costituisce una cultura democratica. Dobbiamo
trovare, declinando in più di un modo la democrazia partecipativa, la
forza per portare avanti una vera rivoluzione culturale fatta di
trasparenza e responsabilità.
C. Forme e pratiche di una nuova aggregazione
La degenerazione degli attuali partiti
politici oscura e mortifica gli ideali di molte persone che, soprattutto
a livello di base, vi militano in buona fede e con generosità. La
volontà di partecipazione, di “far da sé”, di riprendere in mano il
bandolo del discorso pubblico, richiede invece un modello di pratica e
di organizzazione politica radicalmente altro rispetto a quello
formatosi nel lungo ciclo novecentesco. Non possiamo più accettare un
modello incentrato sulla stretta identificazione di “sfera pubblica” e
di “sfera politica” con un tendenziale primato della seconda sulla
prima, in quanto luogo di espressione della “forma partito” intesa come
unico soggetto dotato di voce e legittimazione.
I nostri Costituenti, nello scrivere
l’art. 49, avevano immaginato i partiti come luoghi di mediazione, corpi
intermedi fra società e istituzioni politiche. Luoghi nei quali potesse
formarsi e organizzarsi il consenso. Ma il principio costituzionale che
i partiti devono concorrere “con metodo democratico” alla vita politica
nazionale, è stato realizzato solo parzialmente, in riferimento alle
relazioni esterne dei partiti. In realtà s’immaginava che il metodo
democratico dovesse valere soprattutto nel funzionamento interno dei
partiti, sulla base di principi quali la solidarietà, l’eguaglianza, la
pari dignità, la trasparenza. Una volontà velocemente disattesa da un
sistema politico che si è progressivamente organizzato con strutture
opache, piramidali, fortemente escludenti.
I partiti politici attuali sono così
diventati organizzazioni completamente anacronistiche rispetto ad un
modello di democrazia che non può più esaurirsi nella rappresentanza e
nella delega. Il fondamento giuridico leggero che li intende quali
libere associazioni di cittadini non riconosciute (Codice civile)
risulta paradossale. Essi incredibilmente si trovano nella posizione di
godere da un lato di tutti i benefici di un soggetto privato,
dall’altro di avere accesso ad ingenti risorse pubbliche. Un mostro a
due teste che si appella al diritto di riservatezza, proprio dei
soggetti privati, mentre vive di risorse pubbliche in una dimensione
opaca, espressione di corruzione e perversa contaminazione di interessi
pubblici-privati.
Noi vogliamo invece affermare
l’interpretazione autentica dell’espressione “metodo democratico”,
vogliamo un soggetto politico che, oltre i partiti, sappia muovere dai
fondamenti costituzionali per creare nuovi modelli di partecipazione
politica, fondati sulla passione, la trasparenza e l’altruismo.
In primo luogo il soggetto nuovo, nelle
sue regole e pratiche, dovrebbe mettere l’accento sull’inclusione.
L’immagine dei partiti arroccati ai propri privilegi e separati dal
resto della società, dediti all’hollowing out, allo svuotamento della
democrazia – sempre più potere nelle mani della leadership, sempre meno
democrazia interna, sempre meno iscritti (Peter Mair) – dovrebbe cedere
il passo a un’altra, totalmente diversa, basata sull’allargamento dello
spazio pubblico della politica, non sulla sua restrizione. Dentro questo
spazio, non più separato dalle istanze della società, si muoverebbe una
pluralità di attori politici nuovi. Si passa così dall’esclusione
verticistica (il tesserato come spettatore passivo degli show dei suoi
leader) all’inclusione orizzontale: il cittadino come agente in una
struttura basata su regole democratiche. La struttura del nuovo soggetto
non sarebbe piramidale ma confederale, senza un centro ‘nazionale’
fisso ma con un coordinamento itinerante e a rotazione che si sposta
regolarmente da regione a regione. I singoli individui si aggregano in
modo egualitario sia alla sfera della discussione e della decisione, sia
a quella dell’azione, ognuno nei limiti delle sue possibilità e delle
sue disponibilità di tempo. A tutti i livelli cerchiamo le forme
politiche che consentiranno realisticamente la possibilità di
confrontarsi e decidere insieme (vedi sopra nel paragrafo B). Ci
interessa un luogo dove si sperimentino pratiche fondate sul “potere di”
piuttosto che sul “potere su”.
Il “soggetto nuovo” nascerà da
un’istanza diametralmente opposta a quella che ha guidato quasi tutti i
processi organizzativi novecenteschi. Organizzarsi, secondo quel modello
significava unificare gli identici, raccogliere in un unico contenitore
(modellato gerarchicamente sulla struttura statale) gli “omogenei” –
coloro che condividono gli stessi valori, gli stessi linguaggi, gli
stessi ideali, gli stessi interessi e gli stessi luoghi. Crediamo invece
che organizzare, oggi, voglia dire mettere in connessione le diversità:
culturali, etniche, linguistiche. Inventare la forma della convivenza
in un mondo e in una società in cui quello che era distante e separato
tende a convergere e intrecciarsi. L’organizzazione politica dovrebbe
essere il grande laboratorio in cui si inventano e si forgiano i nuovi
linguaggi di un dialetto universale in grado di superare la separatezza
Una politica che sappia emanciparsi dalla coppia schmittiana
“amico-nemico”. Che sappia trovare la propria “essenza” non
nell’esclusione reciproca (e nel conflitto tra identità chiuse e
separate) ma nell’inclusione e nella
contaminazione-connessione-ibridazione tra identità.
Una serie di regole semplici e condivise
che in questi anni sono diventate patrimonio comune determineranno il
comportamento del nuovo soggetto nelle istituzioni e fuori di esse.
Adozione di un codice etico e dunque politico nella ricerca e
accettazione dei finanziamenti, rifiuto della gestione clientelare di
risorse e consulenze, primarie per la selezione dei candidati o
assemblee partecipate nei piccoli comuni, limiti e vincoli di mandato,
rotazione negli incarichi di direzione, trasparenza nell’uso delle
risorse. La vita interna del nuovo soggetto si baserà anch’essa su
alcune semplici regole di base: prendere le decisioni ricercando in modo
prioritario il massimo consenso possibile; quando occorre procedere al
voto con il sistema “una testa un voto”, unire il rispetto delle
decisioni maggioritarie con la salvaguardia dei diritti delle minoranze,
possibilità per tutti di votare in modo regolare e segreto. Nelle
riunioni del nuovo soggetto, considerazioni di genere devono assumere un
posto di massima importanza: nessuna tolleranza per i soliti maschi
accentratori. Tempi stretti di intervento, ascoltare ciascuno/a e fare
in modo che ciascuno/a parli, report tempestivi delle riunioni.
La chiave della vita interna dovrebbe
essere la prevenzione insieme all’invenzione: prevenzione di tutte
quelle forme di burocratizzazione e di oligarchia che hanno sempre
caratterizzato i partiti socialdemocratici (per non parlare di quelli
democristiani), un’invenzione che si nutre di una partecipazione dal
basso sempre più formata politicamente: negli ultimi anni, tante delle
persone coinvolte nelle campagne referendarie e in mobilitazioni simili
si sono informate, studiando, sostituendosi così ai partiti nelle
proposte di nuove politiche. La formazione, ormai assente nelle
strutture partitiche (con gravi danni non solo a livello nazionale, ma
anche nelle amministrazioni locali, con politici sempre più ignoranti) è
un terreno su cui ritornare a impegnarsi. Più estesa la scala, più
arduo diventa il nostro compito. In ogni caso la nuova democrazia deve
camminare mano in mano con l’efficacia. Oltre al come si decide, diventa
importante come si funziona. E’ del tutto inutile rimpiazzare la
repubblica delle banane o quella dei “tecnici” con una delle
chiacchiere.
Lavoriamo per stemperare, rendendolo dinamico, il confine fra le persone che partecipano a campagne e gli iscritti. Pensiamo ad allargare il potere decisionale a tutti, attraverso consultazioni vincolanti tramite voto referendario e primarie, per la materia elettorale e non solo.
D. Comportamenti e passioni
Le regole formali, preziose e
insostituibili, non sono sufficienti. Ad esse va associata la lenta ma
costante creazione di una cultura profondamente diversa. Per troppo
tempo abbiamo scelto di escludere dal campo della politica qualsiasi
riflessione sulle passioni e sui comportamenti individuali. Un esempio
fra tanti: la cultura della pace. Siamo bravi a predicare la
non-violenza a livello internazionale ma molto meno a praticarla come
virtù sociale. Le relazioni tra di noi nella sfera pubblica politica
rimangono piuttosto primitive, senza alcun guida. Anzi. Abbiamo
accettato fin troppo facilmente che la nostra pratica politica sia
intrisa della violenza e della competitività, una forma di
‘neo-liberismo interiorizzato’. Superare una cultura così longeva e
insidiosa non è questione di una stagione politica. Ma riconoscere la
legittimità del tentativo è già un grande passo in avanti.
Quando parliamo delle passioni e delle
emozioni viene in mente primo di tutto un discorso sul loro governo.
Tante volte consentiamo che siano le passioni negative – l’invidia,
l’odio, l’orgoglio, l’ira – e i comportamenti sociali che ne derivano –
la rivalità, la voglia di sopraffare, il perseguimento dei propri
interessi in modo esclusivo – a guidare le nostre azioni. E spesso lo
facciamo con una grande inventiva, rappresentando i dissidi come
‘differenze oggettive ’, negando con veemenza le loro origini
soggettive. Questo approccio rende la sfera pubblica politica
paragonabile a una grande giungla preistorica, dominata da ‘ego-mostri’ –
politici moderni gonfiati dall’attenzione incessante dei media. Un
primo passo, dunque, verso una nuova politica in questo campo sarebbe un
discorso centrato sul governo e sull’autogoverno delle passioni,
l’invito forte all’autodisciplina, la produzione di un codice di
comportamento.
Soprattutto dobbiamo negare spazio a una
delle passioni più dannose – il narcisismo. Siamo stufi di leader
narcisi e non vogliamo semplicemente affidarci a figure carismatiche,
incoraggiate al massimo dalla moderna personalizzazione della politica.
Non sopportiamo il protagonismo sfrenato e l’auto-compiacimento senza
fine. Se il nuovo soggetto politico venisse concepito come veicolo per
una leadership che si presenta in questo modo, avrebbe poca possibilità
di crescere e fiorire.
Le passioni non esistono però solo per
essere governate. Una seconda riflessione invita al superamento della
classica contrapposizione tra ragione e emozioni, la prima vista come
positiva e civilizzante, le seconde giudicate negative e primitive.
Certe emozioni e i comportamenti sociali che ne derivano costituiscono
invece una risorsa preziosissima per la sfera pubblica politica: la
compassione e la gioia, l’amore e la speranza, la generosità e il
rispetto per gli altri. Non cerchiamo una nuova sfera politica di
auto-abnegazione e di sacrificio, in cui l’individuo si annulli a
servizio della causa comune. Cerchiamo invece l’autorealizzazione
individuale in un contesto collettivo radicalmente nuovo, all’insegna
dell’eguaglianza. Sarebbe interessante sperimentare di più il sentimento
dell’empatia, cioè la capacità di mettersi nei panni dell’altra/o, in
termini non solo personali ma politici, praticando quella “salda
comunanza” (Martha Nussbaum) che esalta le facoltà tipicamente umane di
scelta e di socialità.
Tutto questo può trovare una prima
verifica nella sfera della micro-politica, la cultura sottostante e di
supporto alle regole formali e alle grandi riunioni nazionali. E’ qui
che i partiti politici tradizionali danno il peggio di sé. Abbiamo visto
dirigenti dei partiti venire alle riunioni e poi leggere ostinatamente i
giornali finché non è il loro turno di parlare o quello di un altro
dirigente (rivale). Abbiamo visto ovunque i tipici atteggiamenti
maschili – non solo di uomini – per cui ci si preoccupa solo del proprio
intervento, poi si riaccendono i cellulari e ci si mette a
chiacchierare in fondo alla sala. Tutti arrivano in ritardo: più
importante sei, più in ritardo arrivi. Tutto l’impasto di una riunione o
di un’assemblea assume l’aspetto livido di una contusione, di una
profonda e persistente ferita alla democrazia. Da quel terreno cosa può
scaturire di nuovo o di buono?
A livello di micro-politica un soggetto
nuovo metterebbe invece l’accento su un modo di comportarsi radicalmente
diverso, all’insegna dell’eguaglianza e della cooperazione fra generi,
della capacità di ascoltare, della puntualità, dell’incoraggiare alla
partecipazione i più timidi o chi ha meno esperienza. Ritroverebbe una
fisicità della politica oltre le reti virtuali di Internet, avrebbe
attenzione alla massima circolazione dell’informazione interna e cura
che i nuovi partecipanti non si sentano “ospiti”, ma protagonisti alla
pari degli altri. A predominare sarebbero le virtù sociali della mitezza
e della fermezza. Il mite, scrive Norberto Bobbio, ‘è l’uomo [donna] di
cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé’. Alle sue
qualità intrinseche ne viene aggiunta un’altra – quella della fermezza,
la capacità di non cedere, come ci ha insegnato Gandhi, ma di insistere
con pacatezza. Così la cultura politica nuova si distanzia mille miglia
da quella classica del Novecento, basata com’era in grande parte sul
machiavellismo, sulla realpolitik, sulla furbizia e
l’autoreferenzialità.
Per concludere:
quattro nodi radicali e di rottura per un soggetto politico nuovo e una proposta
- Si rompe con il modello novecentesco del partito, introducendo nuove regole e pratiche: trasparenza non segretezza, semplicità non burocrazia, potere distribuito non accentrato, servizio non carrierismo, eguaglianza di genere non enclave maschili, direzione e coordinamento collettivo e a rotazione, non di singoli individui carismatici.
- Si rompe con questo modello neo liberista europeo che vuole privatizzare a tutti i costi, che non ha alcuna cultura dell’eguaglianza, che minaccia a morte lo stato sociale, la dignità e sicurezza del lavoro. Si insiste invece sulla centralità dei beni comuni, la loro inalienabilità, la loro gestione democratica e partecipata.
- Si rompe con la visione ristretta della politica, tutta concentrata sul parlamento e i partiti. Si lavora invece per un nuovo spazio pubblico allargato, dove la democrazia rappresentativa e quella partecipata lavorano insieme, dove la società civile e i bisogni dei cittadini sono accolti e rispettati.
- Si riconosce l’importanza della sfera dei comportamenti e delle passioni, rompendo con le pratiche mai esplicitate ma sempre perseguite dal ceto politico attuale: la furbizia, la rivalità, la voglia di sopraffare, il mirare all’interesse personale. Al loro posto mettiamo l’inclusività, l’empatia, la mitezza coniugata con la fermezza.
Una proposta:
Il futuro di questo manifesto, del
progetto di radicale rinnovamento della soggettività politica che esso
propone, è nelle mani di tutti e tutte coloro che lo desiderano
attivamente. Si può iniziare dall’impegno a promuovere incontri,
inventare momenti partecipativi e occasioni di confronto fondate su una
comune condizione sociale o sul radicamento attivo nei territori. Una
mobilitazione diffusa e connessa, che non imponga esclusività di
appartenenze e che si ritrovi poi in un primo appuntamento nazionale.
Inoltre si può pensare che sia positiva
la presenza alle elezioni amministrative di liste di cittadinanza
politica che prendano a riferimento e contribuiscano a costruire questo
progetto nazionale. Una rete orizzontale di rappresentanza che sia
radicata nei territori e connotata dagli elementi di metodo prima
indicati: democrazia, governo partecipato dei beni comuni, etica, nuova
cultura delle relazioni. Non si tratta di aggiungere sigle contro tutto e
tutti, né di sommare esperienze locali che restano locali, tanto meno
di chiudersi nel recinto di una radicalità ideologica.
Vogliamo costruire un soggetto che
determini una trasformazione complessiva, costruisca anche alleanze e
mediazioni ma con l’ambizione tutt’altro che minoritaria di mettere in
campo un’altra Italia. Di lavorare per un’altra Europa.
Primi firmatari: Andrea
Bagni, Paul Ginsborg, Claudio Giorno, Chiara Giunti, Alberto Lucarelli,
Ugo Mattei, Nicoletta Pirotta, Marco Revelli, Massimo Torelli,
(Redattori del testo) Giuseppina Antolini, Danila Baldo, Giuliana
Beltrame, Piero Bevilacqua, Valter Bonan, Paolo Cacciari, Nicoletta
Cerrato, Adelaide Coletti, Emmanuele Curti, Sergio D’Angelo, Giuseppe De
Marzo, Gianna De Masi, Silvia Dradi, Luigi Ferrajoli, Dario Fracchia,
Luciano Gallino, Domenico Gattuso, Luca Giunti, Celeste Grossi, Danilo
Lillia, Marinunzia Maiorani, Teresa Masciopinto, Luca Nivarra, Leo
Palmisano, Livio Pepino, Tonino Perna, Riccardo Petrella, Anna
Picciolini, Marina Pivetta, Sandro Plano, Chiara Prascina, Corinna
Preda, Giuliana Quattromini, Leana Quilici, Alessandro Rampiconi,
Domenico Rizzuti, Stefano Rodotà, Chiara Sasso, Enzo Scandurra, Laura
Tonoli, Mapi Trevisani, Vittorio Vasquez, Fulvio Vassallo Paleologo,
Guido Viale.
Fonte: ALBA
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Nasce Alba, il non-partito che cerca un posto al sole
Assemblea a Firenze del «soggetto politico nuovo». Che ora ha un nome-marchio, Alba, e grandi aspirazioni. È il primo passo di un «work in progress».

29.04.2012
Con la studiata strategia d'azione di un
progetto in costante divenire ma già con l'evocativo nome Alba, quello
che fino a ieri si chiamava Soggetto politico nuovo muove il suo primo
passo. Ben attento a restare in equilibrio, per non imboccare subito i
vicoli ciechi del "nuovo partito" - l'ennesimo alla sinistra del Pd - o
della stanca riedizione dei girotondi dell'ormai lontanissimo biennio
2001-03.
Un work in progress insomma, forte della buona
conoscenza, a tutti i livelli, dei meccanismi della comunicazione, come
dimostra il nome-marchio che è l'acronimo di Alleanza lavoro-beni
comuni-ambiente. Forte anche di un lavoro ormai di lunga data, almeno da
parte del gruppo dei fiorentini della «Sinistra unita e plurale» che ha
organizzato l'assemblea aperta al palasport Mandela forum, sui metodi
di una partecipazione che sia quanto più possibile inclusiva. Ancora da
definire invece sul piano dell'effettiva consistenza, nonostante possa
essere considerata un successo la presenza di circa 1.400 persone
all'iniziativa. E su quello del programma di lavoro, le cui basi sono
comunque ben sintetizzate da Marco Revelli in apertura di giornata :
«Partiamo dalla pregiudiziale antiliberista, cioè la constatazione del
fallimento totale del dogma che ci ha portato alla catastrofe attuale e
la necessità di contrapporgli un organico modello alternativo. In
parallelo dalla centralità della questione del lavoro, a cominciare
dalla difesa intransigente dello Statuto dei lavoratori nella sua
integralità». Quanto alla domanda che tutti si fanno, e cioè l'eventuale
partecipazione alle elezioni politiche, in chiusura Massimo Torelli
chiarisce: «Il soggetto politico nuovo 'Alba' nasce perché speriamo ci
sia un numero elevato di cittadini che non trova nell'attuale offerta
politica un suo riferimento ideale. Non ci siamo dati la scadenza del
2013, il percorso avviato oggi andrà avanti di tappa in tappa, e a
seconda di quanta partecipazione riusciremo ad attivare, stabiliremo
tutti insieme che fare». Nel segno, ancora una volta, di quella
«metafora del viaggio» assai cara a Paul Ginsborg, che già nella
stagione dei forum sociali segnalava l'importanza del «camminare
insieme», anche rispetto all'approdo finale.
Per certo dall'assemblea è emersa ancora una volta una aperta critica ai partiti «nella loro forma novecentesca», così come evidenziato in apertura da Revelli: «Se siamo qui, in questo sabato di ponte, è perché avvertiamo che non c'è più tempo: che i pilastri fondamentali che la Costituzione aveva posto alla base della nostra democrazia - intendo i partiti politici - stanno sgretolandosi. E rischiano di trascinare nel loro crollo le stesse istituzioni repubblicane». Al tempo stesso non sfugge a Revelli il pericolo del «soggetto esclusivo».
Tanto da fargli fare una importante precisazione: «Siamo per
l'appartenenza plurima. Per l'apertura a tutti coloro che condividono
questo stile 'altro', anche se militano, contemporaneamente, in un'altra
organizzazione».
Se l'obiettivo del soggetto politico nuovo Alba è quello di una nuova cittadinanza («Quella che ha mostrato il proprio profilo esattamente un anno fa, con la vittoria referendaria e con i risultati 'eretici' delle amministrative in molti comuni»), c'è chi, come Alberto Lucarelli, insiste sulla critica delle attuali forme di partito: «Oggi sono fisiologicamente inadatte alle realizzazione dell'articolo 49 della Costituzione, per questo è necessario un nuovo soggetto che non abbia paura di confrontarsi con la rappresentanza e le elezioni». Un nuovo soggetto che ad esempio lavori, da subito, per raccogliere le 500mila firme necessarie a un referendum contro il fiscal compact in modo da allargare le rete dei potenziali sostenitori. Sull'altro fronte Nicola Fratoianni di Sel riconferma l'importanza dell'appuntamento autunnale degli Stati generali del centrosinistra: «Saranno gli stati generali del futuro, per costruire un processo largo in cui tutti siano protagonisti». Mentre Paolo Ferrero di Rifondazione, che si trova d'accordo con gli assi cartesiani programmatici evidenziati da Revelli, segnala ancora una volta la necessità di un fronte unitario e plurale: «Rispettoso delle differenze, perché oggi l'attività politica viene fatta in maniera plurale e non si può ricondurre 'ad uno', e al tempo stesso metta insieme tutti coloro a cui non piacciono né il governo Monti né soprattutto le sue politiche». Perché a tutti, ricorda applauditissimo Giorgio Airaudo della Fiom, non deve sfuggire un dato di fatto: «Serve qualcosa di grande per rappresentare il lavoro, che ne ha un gran bisogno, e affrontare battaglie non per testimonianza ma per vincerle. E chiunque voglia affrontare le elezioni del 2013 in modo credibile, non può non dire come si correggono i disastri delle 'riforme', da quella delle pensioni a quella del mercato del lavoro».
Fonte: Il Manifesto
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Intervista a Paul Ginsborg su ALBA – (L’Unità)
31 maggio 2012
Il professor Paul Ginsborg racconta che sono in molti a chiedersi
come il nuovo soggetto politico Alba (Alleanza Lavoro Benicomuni
Ambiente), creato insieme a Ugo Mattei, Marco Revelli, Paolo Cacciari,
Chiara Giunti, Nicoletta Pirotta e Alberto Lucarelli, si stia
attrezzando in vista del 2013.
Professore, non è ancora il tempo di parlarne? Le elezioni si avvicinano.
«Siamo appena nati, è molto presto per noi prendere una posizione
sulle elezioni. Certamente vorremmo fare parte di una cultura di
sinistra che contribuisce alla sconfitta del berlusconismo. Ma ci siamo
visti solo una volta ad aprile, la prossima sarà alla fine di giugno
e lì sperimenteremo una vera forma di democrazia partecipativa e a
parlare non saranno solo “i capi”. In quella sede affronteremo anche il
tema delle elezioni. Per ora siamo forti di circa 80 gruppi
territoriali, cresciuti con grande rapidità, al di là di ogni
previsione».
Un altro segnale che i cittadini mandano chiedendo luoghi di rappresentanza di- versi dai partiti?
«Ha ragione, è una grande responsabilità quella che
sentiamo. Credo che que sto interesse dipenda dal fatto che nei
cittadini c’è l’esigenza di trovare nuove interlocuzioni. In questi mesi
abbiamo visto crescere molto in fretta il Movimento 5 Stelle e noi
vorremmo porci come un’alternativa a Beppe Grillo per-ché ci sono molte
persone che chiedo-no un rinnovamento ma non si riconoscono nel
grillismo, fenomeno che va distinto da tanti elettori che hanno
votato M5S. Quello che noi rifiutiamo è proprio la figura del capo
carismatico, questo Paese ne ha conosciuti diversi, e quando vediamo
che ce n’è uno che ha addirittura la proprietà del marchio del suo
movimento non possiamo non avvertire un pericolo per la democrazia».
Quindi Alba non avrà capi?
«Alba non avrà capi, meno che mai carismatici, anzi siamo molto
sospettosi verso di loro. Sia a destra sia a sinistra ce ne sono
troppi. Nel nostro Manifesto quello che vogliamo è che lo spazio della
politica in Italia, le sue regole, la sua cultura, il suo genere,
troppo maschile rispetto al resto d’Europa, devono cambiare
radicalmente. Non diciamo “facciamo un’alleanza con questo o quel
partito”, invitiamo alla creazione collettiva di una cultura politica
diversa».
Ma per dare un vostro contributo dovrà esserci una forma di
partecipazione alla competizione elettorale. Guarderete al Pd, farete
una lista civica nazionale o cos’altro?
«Arriveremo ad una decisione in modo democratico, anche se mi rendo
conto che interessa sapere con chi ci schiereremo e in che modo. A
giugno ci vedremo in Emilia Romagna, anche in segno di solidarietà con i
terremotati, e stabiliremo modi, forme e tempi».
Pensate di poter occupare anche una parte dello spazio a cui oggi guarda Grillo?
«È quello che ci auguriamo anche se facciamo fatica a far
conoscere il nostro progetto, abbiamo trovato grandi difficoltà ad
avere spazi sui quotidiani. Se ci sono professori di destra,
rispettabilissimi, forse possono essercene anche di sinistra che hanno
qualcosa da dire. Io mi appello anche ai tanti del Pd che sono stufi
della vecchia politica di venire con noi e dare il proprio contributo
ad un progetto davvero innovativo».
Professore, forse Bersani questo suo appello non lo gradirà…
«Temo proprio che sia così…».
Fonte: ALBA