sabato 14 luglio 2012

In difesa dei partiti


Visto che iniziano a circolare ipotesi su una fantomatica «iperdemocrazia senza i partiti», e si legge che Simone Weil in un pamphlet avrebbe concluso in maniera «nitida come al termine di una dimostrazione matematica» che «la soppressione dei partiti costituirebbe un bene allo stato quasi puro», vorrei ricordare per quale ragione i partiti esistono, e perché è bene continuino a esistere. Non questi partiti, certo, ma l’istituzione-partito.

Uno degli argomenti dei sostenitori dell’eliminazione dei partiti è che non servano più perché sostituibili grazie all’auto-organizzazione dei cittadini tramite Internet. Come ho già scritto, è l’idea di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, ma naturalmente non solo la loro (Carlo Formenti la racconta in un libro, Cybersoviet, già nel 2008). Affido la replica a uno scritto del 1984 di Norberto Bobbio, Il Futuro della Democrazia:
L’ipotesi che la futura computer-crazia, com’è stata chiamata, consenta l’esercizio della democrazia diretta, cioè dia a ogni cittadino la possibilità di trasmettere il proprio voto a un cervello elettronico, è puerile.
Perché? Bobbio lo spiega con straordinaria chiarezza:
A giudicare dalle leggi che vengono emanate ogni anno in Italia il buon cittadino dovrebbe essere chiamato a esprimere il proprio voto almeno una volta al giorno. L’eccesso di partecipazione, che produce il fenomeno che Dahrendorf ha chiamato, deprecandolo, del cittadino totale, può avere per effetto la sazietà della politica e l’aumento dell’apatia elettorale. Il prezzo che si deve pagare per l’impegno di pochi è spesso l’indifferenza di molti. Nulla rischia di uccidere la democrazia più che l’eccesso di democrazia. (p. 22)
Certo, nel 1984 Bobbio non poteva prevedere la diffusione capillare di Internet né soprattutto lo sviluppo del web 2.0. Ma né l’uno né l’altro fenomeno intaccato di una virgola, a mio parere, i problemi sollevati. Anzi, la frenesia dell’era dei social media rischierebbe di acuire il problema del ‘cittadino totale’ (in questo caso, il ‘netizen totale‘), trasformando la democrazia di fatto in una sorta di referendum istantaneo permanente sulla volontà popolare. Un incubo, se si considera quanta poca attenzione si presti a contenuti complessi, e quanto le nostre capacità attentive siano già duramente messe alla prova dall’enorme serie di stimoli con cui veniamo quotidianamente bombardati, spesso in simultanea.

Non a caso, sempre Bobbio sostiene poche pagine dopo che «il cittadino totale non è a ben guardare che l’altra faccia non meno minacciosa dello stato totale». Due facce della stessa medaglia, scrive ancora, perché il principio è lo stesso: «che tutto è politica, ovvero la riduzione di tutti gl’interessi umani agli interessi della polis, la politicizzazione integrale dell’uomo, la risoluzione dell’uomo nel cittadino, la completa eliminazione della sfera privata nella sfera pubblica, e via dicendo». Il cortocircuito tra pubblico e privato suona quasi profetico, pensando ai proclami di Mark Zuckerberg sulla fine dell’era della privacy, e al moltiplicarsi di richieste di trasparenza radicale.

Da dove l’utilità dei partiti? Beh, sono proprio loro i corpi intermedi tra cittadino e Stato che servono a mantenere da un lato la libertà del cittadino, e dall’altro a tutelare l’indipendenza dello Stato dalla dittatura dell’opinione. A questo serve il divieto di mandato imperativo, contenuto nella nostra Costituzione all’articolo 67: a fare sì che l’eletto possa comunque adoperare il suo giudizio nello scegliere come meglio servire l’interesse collettivo, se assecondando l’opinione della maggioranza o se ascoltando la voce della sua coscienza (una possibilità che, come afferma Thoreau ne ‘La Disobbedienza Civile’, è anche un antidoto al rispetto cieco della legge). Fermo nella consapevolezza che il bene collettivo, a volte, può doversi strutturare – e qui sorgono naturalmente i problemi legati alla scarsa capacità di giudizio o buonafede degli eletti di cui sappiamo – anche contro l’opinione prevalente.

Altri problemi legati all’eliminazione dei partiti sono connessi al fatto che la democrazia diretta si sia dimostrata inservibile, scrive Bobbio, una volta che lo stato è diventato nazione e le sue dimensioni hanno superato quelle dell’agorà – rendendola di fatto «anacronistica». Spunto da cui Hans Kelsen, in ‘La Democrazia’, trae un ulteriore argomento:
Data l’irrealizzabilità pratica della democrazia diretta nei grandi Stati economicamente e culturalmente evoluti, gli sforzi per stabilire il contatto più stretto possibile fra la volontà popolare e i necessari rappresentanti del popolo, la tendenza ad avvicinarsi al governo diretto portano non ad una eliminazione od anche a una riduzione del parlamentarismo, ma ad un’ipertrofia non sospettata del parlamentarismo stesso. La Costituzione sovietica (Kelsen scrive negli anni ’20 del 900, ndr), che si oppone scientemente e intenzionalmente alla democrazia rappresentativa della borghesia, lo mostra chiaramente. Parlamenti piramidiformi chiamati «sovieti» o «Consigli» che sono semplicemente assemblee rappresentative. Il parlamentarismo così si estende ma, contemporaneamente, si intensifica. (p. 84)
Non molto di diverso dal caos di forum, pagine di discussione e polemiche che accompagnano le strutture orizzontali odierne, che siano coordinate tramite meetup o Facebook. E che si risolvono molto spesso in litigi, paralisi decisionale e incapacità di proposte minoritarie.

L’ultimo, e credo il più grosso problema, è il rapporto tra democrazia e visibilità, tra esercizio della sovranità e presenza. Nell’era di WikiLeaks e dell’open government, la richiesta di annientare il segreto è forte, e più che giustificata in moltissimi casi. Ma si deve fare attenzione: perché la eliminazione dei corpi intermedi (tra cui i partiti) tra cittadino e Stato può significare non solo che i cittadini sanno tutto dello Stato, ma anche che lo Stato sa tutto dei cittadini. E’ il rapporto tra il sogno di Rousseau e quello di Bentham. Scrive Michel Foucault nella conversazione che precede l’edizione italiana del Panopticon benthamiano:
Direi che Bentham è complementare a Rousseau. Qual è, in effetti, il sogno roussoiano che ha animato parecchi rivoluzionari? Quello di una società trasparente, al tempo stesso visibile e leggibile in ciascuna delle sue parti; che non ci siano più zone oscure, zone regolate da privilegi del potere reale o dalle prerogative di questo o di quel corpo, o ancora dal disordine; che ciascuno, dal punto che occupa, possa vedere l’insieme della società; che cuori comunichino gli uni con gli altri, che gli sguardi non incontrino più ostacoli, che regni l’opinione, l’opinione di tutti su tutti. [...] Bentham è questo, e al tempo stesso tutto il contrario. Egli pone il problema della visibilità organizzata interamente attorno ad uno sguardo che domina e sorveglia. Fa funzionare il progetto di una visibilità universale, che giocherebbe a profitto di un potere rigoroso e meticoloso.
Michelle Perrot, subito dopo, incalza il filosofo: «C’è questa frase nel Panopticon: ‘Ogni compagno diventa un sorvegliante’». E lui: «Rousseau avrebbe senza dubbio detto l’inverso: che ogni sorvegliante sia un compagno». Se non bastasse l’ambiguità, crescente – paradossalmente – al crescere della gestione diretta del potere da parte dei cittadini, Foucault invoca un altro e più temibile spettro: il rischio di una dittatura della trasparenza:
Questo regno dell’«opinione» che viene tanto spesso invocato, in quest’epoca, è un modo di funzionamento in cui il potere potrà essere esercitato per il solo fatto che le cose saranno conosciute e che le persone saranno viste attraverso una sorta di sguardo immediato, collettivo e anonimo. Un potere la cui risorsa principale sia l’opinione non potrebbe tollerare delle regioni d’ombra. Se ci si è interessati al progetto di Bentham, è perché egli forniva, applicabile a molti domini diversi, la formula di un «potere per trasparenze», di un «assoggettamento grazie alla messa in luce».
Tutto ciò non vuole affatto dire che non serva maggiore trasparenza nella attuale gestione della democrazia rappresentativa: sarebbe folle sostenerlo. Il punto è che la trasparenza deve essere messa al servizio dei cittadini, non dello Stato; dei controllori, non dei controllati. E perché ciò avvenga in modo non ambiguo non si può eliminare la differenza tra i due. Nel mezzo, in altre parole, ci devono essere i partiti: aperti all’ascolto delle istanze dei cittadini, gestiti in modo chiaro e immediatamente verificabile da ciascuno, e possibilmente in grado di realizzare i programmi con cui si presentano agli elettori. In grado di motivare gli scostamenti dalla volontà popolare, quando siano necessari. Ma soprattutto capaci di ribadire che la politica – per tutti i motivi sopra esposti – richiede rappresentanza.

L’alternativa, la distruzione dei partiti, conduce all’autoritarismo. E lo fa subdolamente, nel nome del popolo. Per questo ha ragione Giorgio Napolitano quando dice, pur sapendo di essere impopolare, che il web è sì un «importante canale di partecipazione», ma non può «condurre direttamente al luogo delle decisioni politiche». E per lo stesso motivo mi fa paura, al contrario, sentire una persona in grado di attirare consensi a doppia cifra dire con leggerezza:
«A cosa ti serve un politico che ti rappresenta. Io con un click, semplicissimo, [...] io decido se fare la guerra o non fare la guerra, se uscire dalla Nato, se essere padroni in casa nostra, se avere una sovranità monetaria, una sovranità economica» (Beppe Grillo, 25 gennaio 2012).
Semplice, immediato, seducente. Ma non per questo meno sbagliato. Pur nel disastro attuale, e sapendo a mia volta di essere impopolare, se questa è l’alternativa non resta che esclamare: evviva i partiti.

Fonte: Il Nichilista

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Manifesto contro i manifesti per l’abolizione dei partiti


Non si fa in tempo a scrivere un pezzo in difesa dei partiti che spuntano in libreria due ‘manifesti’ che vorrebbero sopprimerli o abolirli. Il primo è una riedizione del testo scritto da Simone Weil nel 1943 e pubblicato sette anni più tardi; il secondo un pamphlet di Willer Bordon. Uno che di partiti si intende, visto che ha militato nel PCI, tra i Radicali, nel PDS, in Alleanza Democratica, Unione Democratica, Democratici, Margherita e Unione Democratica. In totale, 21 anni in Parlamento remunerati – secondo i dati di agosto 2011 di Mario Giordano – con un vitalizio di 9.604 euro al mese, e già a 59 anni. E che ciononostante ha lasciato lo scranno al Senato nel 2008 in polemica con la ‘Casta’.

Ma questo non è un post contro i voltagabbana, gli ipocriti e la suddetta ‘Casta’. Questo è un post in cui ci si chiede se i due ‘manifesti’ contengano effettivamente buoni argomenti per sopprimere o abolire i partiti. E mi scusino i lettori se, per comodità e per presentare un dibattito il più possibile aggiornato alla situazione attuale, ho dovuto mettere sullo stesso piano una pensatrice del calibro di Simone Weil e Willer Bordon.

Nel testo di Weil un buon argomento contro i partiti c’è: «Il fatto che esistano non è in alcun modo un motivo per conservarli». Vero. Ma resta da dimostrare che ci sia un motivo per non conservarli. La filosofa attacca immediatamente a testa bassa: «Non sono forse un male allo stato puro, o quasi?» La risposta, naturalmente, è affermativa. Per tre ragioni:

1. «Un partito politico è una macchina per fabbricare passione collettiva». E le passioni collettive – secondo l’impostazione mutuata da Rousseau di Weil – sono esattamente ciò che impedisce che il «volere del popolo» abbia «maggiori possibilità di qualsiasi altro volere di essere conforme alla giustizia».

2. «Un partito politico è un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte».

3. «Il fine primo e, in ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito politico è la sua crescita, e questo senza alcun limite».

Queste tre sono «verità di fatto, evidenti», commenta Weil. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di argomentarle, insomma. La filosofa lo dice esplicitamente riguardo alla prima caratteristica: «è talmente evidente che non merita di essere spiegata».

Le conseguenze sono terribili:

«La tendenza essenziale dei partiti è totalitaria»

«I partiti sono organismi pubblicamente, ufficialmente costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia»

«[...] lo spirito di partito acceca, rende sordi alla giustizia, spinge anche le persone oneste all’accanimento più crudele contro gli innocenti»

Quindi, ragiona Weil,

«se l’appartenenza a un partito obbliga sempre, in ogni caso, alla menzogna, l’esistenza dei partiti è assolutamente, incondizionatamente, un male». Del resto, «Se si affidasse al diavolo l’organizzazione della vita pubblica, non saprebbe immaginare nulla di più ingegnoso».

Conclusione: i partiti «sono nocivi nel principio, e dal punto di vista pratico lo sono i loro effetti». Per questo «La soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro. E’ perfettamente legittima nel principio e non pare poter produrre, a livello pratico, che effetti positivi».

L’atto di accusa è chiaro: i partiti servono a eccitare le folle, a mettere gli uni contro gli altri manipolando il pensiero degli individui e facendo credere che solo quanto sostiene il partito non solo sia vero, ma addirittura meritevole di considerazione («l’operazione di prendere partito, di prendere posizione pro o contro, si è sostituita all’operazione del pensiero»). Ed è questo stato di eccitazione a impedire decisioni razionali collettive, che altrimenti scioglierebbero la tensione – espressa da Rousseau nel ‘Contratto sociale’ – tra giustizia e utilità.

E qui si potrebbe muovere una prima critica, la più radicale: davvero le decisioni collettive, lasciate nelle mani del popolo finalmente privo dal giogo dei partiti, sarebbero meno partigiane, manipolate e in preda alle passioni collettive di quelle maturate all’interno di una società democratica basata sui partiti? Questo Weil avrebbe dovuto dimostrare, a mio avviso, piuttosto di proclamare l’evidenza dei suoi principi. Purtroppo il breve testo costringe ad assumere in toto la prospettiva di Rousseau, e confidare funzioni. Il che significherebbe spezzare l’assunto che «i partiti siano l’unica espressione della democrazia», nelle parole di Bordon. Che tuttavia, pur difendendo Weil, è costretto ad ammettere:  «nella breve vita democratica moderna [...] non si conosce altra forma corrispondente. La democrazia organizzata è sempre stata solo quella offerta dai partiti».

Certo, il salto proposto dagli autori è possibile, «almeno dal punto di vista della ricerca teorica»: ma dobbiamo essere consapevoli che si tratta di un salto nel buio, non dell’approdo a un porto di certezze. Ribaltando l’accusa di contenere il germe del totalitarismo, per esempio, si potrebbe ribattere che proprio il concetto di convivenza civile proposto da Rousseau è stato definito dai critici «democrazia totalitaria» (nel mio post ‘In difesa dei partiti ho aggiornato il concetto a quello di «netizen totale»).

Ancora: Weil ha steso il suo manifesto con in mente un bersaglio ben preciso: il partito sul modello staliniano. Contestualizzate, le sue accuse assumono un significato ben più preciso e legittimo. Ma sostenere che gli attuali partiti costringano invariabilmente i militanti ad abdicare al pensiero autonomo è antistorico: uno dei motivi per cui i partiti hanno portato alla stasi attuale, e dunque al loro commissariamente da parte dei tecnici, è infatti il contrario. E cioè che non siano stati in grado di tenere a bada le correnti interne (interessate o meno, a questo livello di riflessione non conta), portatrici di contraddizioni e punti di vista confliggenti su tutti i temi, dall’economia ai diritti civili. E che sia stata questa loro implosione interna a causarne la paralisi. Il problema pertanto è che i partiti non significhino più nulla in termini di visione del mondo e di pensiero, non che dividano il mondo in fazioni intorno all’idea monolitica e irrefutabile che incarnerebbero.

Si potrebbe anzi sostenere che la disintegrazione degli ideali che hanno storicamente animato i grandi partiti di massa, dalla Democrazia Cristiana al Partito Comunista, e l’accentramento del consenso intorno a singole personalità, abbia perpetuato, se non accentuato, lo schema del pro-contro a prescindere. Nessuna diminuzione della conflittualità e dell’impossibilità di considerare le ragioni dell’altro, dunque, nonostante l’irrilevanza delle strutture di partito di cui i leader carismatici sono a capo – e che, in alcuni casi (dalla Lega al Pdl e all’Idv) gestiscono o hanno gestito in modo padronale. Insomma: i partiti sembrano già morti, eppure il dibattito non sembra affatto meno polarizzato o meno animato da passioni collettive. Significa forse che il problema non sta solo negli eletti, ma anche negli elettori? Credo sia una domanda da tenere in considerazione. E che quantomeno fa dubitare dell’«evidenza» dei principi enunciati da Weil.

Ancora: se anche il fine ultimo dei partiti fosse la loro crescita indefinita, e non quella della collettività, ciò non esclude né a livello teorico né a quello pratico che le due cose possano coincidere. La storia italiana serve di nuovo da esempio: non è stato forse negli anni della contrapposizione massima tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista che l’Italia è passata dalle macerie del fascismo all’ingresso nel club delle principali potenze economiche mondiali? Si potrebbe obiettare che senza i partiti la transizione democratica (che annovera conquiste di civiltà come la Costituzione italiana) e lo sviluppo avrebbero potuto conoscere un’era perfino più fulgida: ma sarebbe, di nuovo, un esercizio teorico. In ogni caso la storia basta a smentire l’assunto di Weil secondo cui i partiti sono «nocivi nel principio». Se fosse vero, l’Italia dei partiti non avrebbe mai potuto prosperare (né tantomeno si capisce come possa aver visto la luce la Costituzione). La degenerazione dei partiti in partitocrazia, in altre parole, andrebbe spiegata alla luce del contesto storico di riferimento, non di principi, senza cercare l’origine del male in una qualche loro ipotetica proprietà essenziale.
Resta poi il problema più pressante. Come dare forma a una società democratica post-partitica? Su questo Weil tace. Bordon, che scrive nel 2012, fa invece qualche timido accenno. Ma tradendo una chiara sudditanza al tecnoutopismo di matrice grillina più volte criticato su questo blog. Pensando, proprio come Grillo, all’«iperdemocrazia» coniata da Attali, Bordon scrive:

«Credo che quello che ieri sarebbe stato impossibile oggi non lo sia più grazie a una straordinaria nuova casa comune: la piattaforma informatica, il mondo dei social network e più in generale del Web. Questo mondo permette tempi e modi di organizzazione assolutamente diversi dal passato; controlli costanti e continui su ogni dichiarazione e su ogni atto di chi è stato chiamato a ricoprire temporaneamente un incarico associativo o più propriamente pubblico; una trasparenza inimmaginabile solo poco tempo fa».

E’ nella retorica di Internet come salvatore della democrazia e strumento di realizzazione della democrazia diretta post-partitica che i discorsi di Weil, Grillo e Bordon si saldano. Non a caso evitare un futuro alla Blade Runner (sic) dipende in primo luogo «da come intendiamo usare ora le innovazioni tecnologiche che abbiamo a disposizione». Con picchi di utopismo che in Bordon diventano l’identificazione dell’«era del Web» con quella di «un immenso campo orizzontale in cui ognuno conta per se stesso (l’equivalente dell’«ognuno vale uno» di Grillo, ndr) ma nello stesso tempo è parte di una dimensione che costantemente viene condivisa e non è mai una volta per tutte definita come regime vincolante, come prigione di idee, come impedimento alla propria personalità».

Dopo i partiti, insomma, c’è – se si vuole prendere sul serio il termine «abolizione» nel titolo del ‘manifesto’ e non limitarsi alle proposte di buonsenso per riformare i partiti al termine del volume -soprattutto l’organizzazione orizzontale gestita direttamente dai cittadini di cui Internet è la massima incarnazione. Un discorso che ignora le concentrazioni di potere presenti in rete, le possibilità manipolatorie – le stesse che Weil attribuiva ai partiti – della propaganda 2.0, la capacità dei social media di alimentare – e non estirpare – le decisioni prese sull’ondata di «passioni collettive». Cioè l’origine del vizio che si vorrebbe attribuire in via esclusiva ai partiti. Senza contare i problemi evidenziati dal fallimento del voto sulla policy di Facebook (poco più di 340 mila partecipanti sui 270 milioni richiesti), che evidenzia il rischio che l’overload informativo e una falsa nozione di trasparenza diventino problemi eminentemente politici, oltre che sociali.

L’errore di questi ‘manifesti’ antipartitici, in conclusione, è che individuano un male reale del nostro tempo – la crescente inadeguatezza di questi partiti – ma lo barattano con una cura perfino peggiore: eliminarli in nome di un futuro basato o su un vuoto concettuale o, laddove vi siano concetti, su un’utopia di partecipazione razionale (una sorta di democrazia diretta digitale) che dovrebbe realizzarsi non ridiscutendo il nostro intero modo di convivenza civile – e la sua cultura – ma affidandoci alle proprietà taumaturgiche della tecnologia e, in particolare, di Internet. Un errore di cui stiamo già iniziando a pagare le conseguenze. Come quando si realizza il paradosso di avere il più prestigioso quotidiano al mondo, il New York Times, che parla di «digital awakening» in Italia e la realtà, al contrario, che ci dice che l’agenda digitale è ancora tutta sulla carta e che le nomine alle authority sono state fatte secondo le solite logiche dei partiti in disfacimento – e non secondo la trasparenza richiesta tra gli entusiasmi su Internet. Così mentre gli italiani si innamorano di questa retorica della speranza fondata sul digitale, il potere continua a fare i suoi comodi. Antipartitismo e utopia internettiana vanno a braccetto non solo tra loro, ma anche con la perpetuazione dell’esistente. E un terribile, dolorosissimo inganno.

(Immagine: The Economist)

Fonte: Il Nichilista